RADICI ED ALI

Back row L-R: De Garston, Olsen, Pirandello, Gaffiero, V. Pojero, Marino.
Front row L-R: Giaconia, R. Pojero, Blake, Pagano, Macaluso.
Questa fotografia dell’Anglo-Palermitan Athletic And Foot-Ball Club, datata 1900, l’anno della fondazione, è stata pubblicata recentemente sul Giornale di Sicilia. Restaurata, anche se ancora non del tutto, e colorata dal sottoscritto, ci svela delle novità interessanti, approfondite dal servizio di Giovanni Tarantino. Vi invito a leggerlo, poiché, oltre a quanto riportato nel mio articolo di seguito, le sorprese non mancano. Sorprese perché c’è ancora troppa confusione, sulle origini del sodalizio Rosanero. A poco a poco, si sta facendo chiarezza: per la nostra contentezza. Innanzitutto, il Palermo non è stato fondato dagli inglesi. Ignazio Majo Pagano non è il Kilpin del Milan. Palermitano, scopre il football a Portsmouth e lo importa in Sicilia. Torna a Palermo nell’Agosto 1900 e, dopo tre mesi, fonda il club. Ovviamente, anche la denominazione, che sa tanto d’Albione, può trarre in inganno, come la presenza nella squadra di veri e propri britannici. Ma andiamo per ordine. Lo statuto (autentico) riporta la data 01/11/1900 riguardo la fondazione. Non 1898, come ancora oggi taluni credono. Inoltre, la famiglia Whitaker, spesso associata alla proprietà, ha solamente messo a disposizione della squadra il campo Notarbartolo per le prime dispute tra marinai, che non erano giocatori del neonato club. Infatti, non figurano loro membri negli organigrammi societari. Riguardo i colori del neonato team, sappiamo del rossoblu. Ma non erano le maglie del Portsmouth FC. Quando Pagano vede i Pompeys giocare, questi indossano una maglia rosa salmonato, ispirata ai colori dei tram cittadini. Nel 1909 passano ad un anonimo bianco, senza spiegazioni. Due anni prima, il Palermo diviene Rosanero. Il blu sulla maglia dei portuali inglesi compare nel 1912. Il rosso, soltanto nei calzettoni e addirittura nel 1947. Per concludere, rimane pure un alone misterioso. Perché non dobbiamo dimenticare la famosa lettera di Airoldi, che suggerisce il cambio cromatico: rosa per la vittoria e nero per la sconfitta. Il dolce e l’amaro per i risultati alterni. Rosa, come le maglie del Portsmouth delle origini. In sintesi, subentra anche il giallo. Inoltre, approfondendo, si scopre che gli inglesi navigano in cattive acque, rischiando l’iscrizione al campionato. Pagano torna oltremanica: è una toccata e fuga. Per il club inglese una boccata d’ossigeno: si risana e abbandona i colori delle origini (poi affonderà nuovamente). La nebbia torna fitta. Poi si dirada e spuntano prima un pallone, poi delle ali. Ed ecco il Palermo con cui oggi ci identifichiamo: maglia rosa, calzoncini neri, calzettoni neri con bordi rosa in infinite varianti. Bianco il terzo colore. L’Aquila, il suo simbolo. La nostra storia, le nostre origini: non si possono inventare. Il resto, lo possiamo solo immaginare. Perché il calcio è poesia. Ma è anche una favola.
Dario Romano
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LA STORIA SIAMO NOI

Non è un vero e proprio allenamento. Siamo agli albori del football: giunto un po’ in ritardo, nello Stivale. Mentre al Nord si assegna già il titolo nazionale, nel meridione si inizia con lo scoprire, lo sperimentare. Il tempo per rimediare, non manca. Ignazio Majo Pagano, in tenuta da caccia ed in bianco candido in mezzo al campo di via Notarbartolo, è intento nel rudimento. Ha portato i palloni da Albione, mentre le maglie sono invece un insieme di bianco, rosso e blu. Ne scaturirà il primo completo che con i colori del Portsmouth FC non aveva nulla a che vedere. Ebbene, tenetevi forte, se ancora non lo sapete: i Pompey indossavano, guarda caso, una casacca rosa salmonato, ispirata ai colori dei tram in uso nella città portuale. Il resto, è storia. I primi calci nel terreno concesso dai Whitaker, la scelta azzeccata di una combinazione cromatica inconfondibile, le sfide della LIPTON CUP, assegnata definitivamente ai Rosanero dopo il disastro tremendo che colpì lo stretto. Poi il debutto, in una massima serie che si era data un nome: SERIE A. A lungo, un’ossessione: a tratti, lo zenit della nostra passione. Il trofeo del magnate del tè è stato fuso: un Sacro Graal che non figurerà mai nella sala coppe. A qualcuno verrà da ridere: non siamo mica il Milan, l’Inter o la Juve. Eppure, vi posso assicurare che il Palermo vanta una bella collezione. Cimeli accumulati in più di un secolo di storia: tra doni e scambi, tornei improvvisati e trionfi meno roboanti delle competizioni ufficiali. Io li ho visti: al Barbera, in una stanza che racchiude un tesoro che prima o poi rivedrà la luce. Per non parlare dei collezionisti, possessori dei pezzi più pregiati. Del resto, fate un po’ di conto: ad esempio, uno sportivo qualunque, anche un semplice dilettante. Che fatica a trovare spazio per i riconoscimenti vari ed eventuali: ne hanno accompagnato partecipazioni più o meno lusinghiere. Paragonate il tutto alla parabola di un sodalizio più che centenario ed il gioco è fatto. Pensate alla Pro Vercelli: in rete potrete ammirare qualcosa del genere. Le Bianche Casacche che figurano orgogliosamente nell’Albo d’oro del campionato italiano: la punta di diamante del celebre ‘Quadrilatero’ piemontese. Sette titoli, ma una sbirciata alla loro raccolta toglie il fiato: impressionante. Giù il cappello: per questo, quando il Palermo si appresta a scendere in campo, la prima sensazione che mi investe è il rispetto per l’avversario. Il blasone che porta, anche se vive tempi di vacche magre: ci siamo passati, li abbiamo vissuti ripetutamente. Partiti da quel terreno spelacchiato, con quei fiori di campo che lo rendevano macchiato e più ingiallito del dovuto. Nel mezzo, il nostro padre putativo. Da via Notarbartolo a Boccadifalco, il passo è un viaggio nel tempo lungo 122 anni. Tanta acqua, sotto i ponti. E tanta storia: quella, siamo anche noi.
Dario Romano
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IL MUSEO DEL PALERMO

La destinazione delle foto restaurate e colorate da ilpalermo.net. Giovanni Tarantino ha realizzato il sogno di ogni tifoso, perché la memoria storica riconduce al senso di appartenenza. È qualcosa che ci manca. Nel nostro piccolo, gli sforzi saranno incentrati soprattutto a questo scopo. Nel sito e nella pagina troverete una sezione storica, i quadretti, i tabellini delle varie stagioni, senza trascurare l’attualità. Una produzione propria: poiché, ogni post, richiede tempo e passione. La passione che ci lega ai nostri colori. Rosa come il dolce, nero come l’amaro. Lo sono dal 1907.
Dario Romano
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L’EVOLUZIONE

Undici loghi, per sempre. Dal 1920 ad oggi, tanta acqua sotto i ponti. Refusi compresi, a partire proprio dalla prima realizzazione. Voluta dal Presidente Valentino Colombo, che omaggia il Racing F.B.C. riportandone i colori. Si riparte dopo la Grande Guerra, in tutti i campi: per il calcio, non poteva essere altrimenti. Lo stesso per il Palermo, che rinasce grazie al cambio di denominazione del piccolo club cittadino. Colombo, sotto il logo, fa riportare la dicitura ‘Costituito nel 1898’. La scritta persiste nella versione seguente, che almeno è a tinte Rosanero. Ma, come sappiamo, lo statuto parla chiaro: il sodalizio viene fondato il primo giorno di Novembre nell’anno del Signore 1900. Rendiamo grazie, soprattutto nel 1907: per la prima volta, ci si sposa con la combinazione cromatica che ameremo per tutta la vita. Nella gioia e nel dolore. La pietra sopra, l’abbiamo messa da un bel pezzo su un abbaglio: il rossoblù delle origini, non ha nulla a che vedere con i colori del Portsmouth FC. Da Albione, Ignazio Majo Pagano porta un’idea e la mette in pratica: ma non ruba nulla. Forse, perché il rosa salmonato del Pompey non può essere mica un caso. Il grande passo, è merito di Giuseppe Rizzo: un viaggio nel futuro. Quel rombo attira l’occhio: il pallone, fa il resto. Il risultato è fuori dal tempo: siamo appena nel 1929. Una precisazione è necessaria per la realizzazione successiva: quando il Palermo, sospinto dalle reti del lungagnone Carlo Radice, raggiunge la massima serie. L’aquila che fa bella mostra sulla maglietta, non è questa che vediamo protesa in volo. Nel ’32, compare un rapace di stile imperiale ispirato all’emblema comunale. Il logo ufficiale, il quarto parto della serie, è meno maestoso. Secondo altre fonti, pure postumo: riconducibile a Francesco Paolo Barresi, risalirebbe al 1937. Il periodo bellico è un bel guazzabuglio anche per il Palermo, che rinasce dalle sue ceneri come altri gloriosi club di un continente messo a ferro e fuoco. Era cambiato tutto, con il fascismo: che impone nomi e colori. Un pugno in un occhio, quel giallorosso. Di buon auspicio, il ritorno dell’aquila, resa reale dal barone Stefano La Motta, il neo presidente che fa le cose in grande. Impossibile non notare il particolare: S.P.Q.P. che sta per Senatus Populus Que Panormitanus. Giù il cappello, per lo stemma più longevo del gruppo: dal 1947 al 1979. Poi, è standing ovation. Si chiude l’era del ‘Presidentissimo’ Renzo Barbera e si entra nell’età moderna pallonara. Soprattutto, si comincia a far davvero l’amore con il calcio e non soltanto per il successo inaspettato nel Mundial spagnolo. In Italia, la riapertura delle frontiere fa nascere il campionato più bello del Mondo, mentre a Palermo è la fine: di tutto. Sarà che il vero tifoso è più di un vero amico: si vede nel momento del bisogno. Palermo ascensore e, nonostante un plotone d’eccezione, non sale mai al primo piano, ma scende spesso fino al terzo. Nel baratro che l’attende, la famigerata radiazione, resta una fioca luce. Il barlume è opera di un designer che fa centro: Piero Gratton ci regala un logo che definire un semplice capolavoro risulterebbe riduttivo. Ed il plauso, proviene da ogni dove: il lupetto della Roma, il galletto per la Bari, il delfino del Pescara e non solo. Fino alla testa d’aquila rivolta a destra che fa sfoggia nel completino azzeccato della Pouchain. Un logo vintage, ma tremendamente moderno. La rinascita è simboleggiata da uno scudo: la testa del rapace volge lo sguardo orgoglioso a sinistra, stavolta. Il taglio col passato, è netto. Le ali spiegate del marchio che caratterizza la società passata a Giovanni Ferrara e Liborio Polizzi, riportano più che altro all’artistico. Il risultato è discutibile, come i tempi che corrono. Le vacche magre, tuttavia, ci regalano un sogno: quando si ritorna al passato, con il simbolo comunale a farla da padrone. Ad imperversare, anche il ‘Palermo dei picciotti’. Il logo è quello che meno amo, ma al cuore non si comanda. Poi, è rivoluzione: in tutti i Sensi, compreso Franco. Si apre l’era targata Zamparini ed il Palermo entra nel nuovo millennio quatto quatto e poi col botto: un decennio così non l’avevamo mai visto, accompagnato da quel brand uscito dallo studio di Ferruccio. Il buon Barbera realizza un’aquila dorata così bella che potrebbe volare anche da sola. Per il Daily Mail, c’è da rifarsi gli occhi. Purtroppo, sappiamo tutti com’è andata a finire: dall’Europa alla terza finale di coppa, fino allo smantellamento coatto ed al fallimento. Hera Hora si presenta con un crest discutibile. Di primo acchito, fa storcere il naso: a molti, ma non a tutti. Compreso il sottoscritto, che sembra averlo già visto da qualche parte. La somiglianza con il simbolo dell’Istituto LUCE istituito dal Duce, è disarmante. Nulla di sospetto, per carità: ma nonostante la direzione opposta della testa d’aquila, la foggia sembra la stessa. Sarà una coincidenza. Una possibilità, invece, riguarda il cambiamento epocale che ci apprestiamo a vivere. L’avvento del City Football Group potrebbe coinvolgere anche l’aspetto del logo che ha accompagnato le notti magiche e le gesta degli eroi di Silvio Baldini. L’opera di Danilo Di Muli, controversa anche per altri aspetti, potrebbe finire racchiusa in un cerchio. Per il colosso dello sceicco, una sorta di marchio a fuoco. Ad incendiare le nostre aspettative: oro, incenso e Mirri. Ho accompagnato il viaggio nel tempo con le varie denominazioni del sodalizio: un intervento forse invasivo, ma doveroso. Spero risulti altrettanto esaustivo. L’evoluzione è anche storia e l’universo non ha mai smesso: di essere creativo.
Dario Romano
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IL SACRO GRAAL

Mentre già dal 1898 il Genoa si aggiudicava la coppa donata dal Duca degli Abruzzi, che vale il titolo di Campione d’Italia, nel meridione prende vita la prima, vera competizione. Il Palermo Foot-Ball Club, dal 1907, ha adottato i colori Rosanero che regalano subito il sapore dolce. Arrivano due affermazioni contro il Messina FC che valgono la WHITAKER CHALLENGE CUP. Lo sbarco di Sir Thomas Lipton a Palermo, non ci porta soltanto il tè, ma una gran bella coppa. L’imprenditore scozzese non è stato soltanto un magnate, ma anche un mecenate. Portano il suo nome diverse competizioni dallo stesso patrocinate: il mondo della vela e del neonato football ringraziano doverosamente. La LIPTON CHALLENGE CUP non va assolutamente confusa con il torneo che vede confrontarsi URUGUAY e ARGENTINA in incontri che fanno da preludio alla prima finale, datata 1930, della RIMET CUP. Questa coppa mastodontica da conquistare è soltanto affare tra Sicilia e Campania. A contendersela, sono le due espressioni calcistiche partenopee, Naples FBC e Internazionale Napoli, e le maggiori isolane dell’epoca, il Palermo FBC ed il Messina FC. Come voluto dallo stesso Sir Thomas, il trofeo verrà assegnato definitivamente a chi avrà la meglio per ben cinque volte. La foto immortala i Rosanero il giorno della prima disfida contro il Naples: un boccone amaro, con l’esito di un 4-2 pesante da digerire. Il prossimo piatto, avrà il sapore della rivincita. Altro che babà: la COPPA LIPTON sarà dolce come i cannoli. Nel 1915 è finalmente servita su un piatto d’argento: arriva la ‘quinta’. Adesso, non è neanche un cimelio. Sparita, fusa o acquistata da un antiquario. Dispiace, ma pensateci bene: anche il Palermo ha il suo Sacro Graal.
Dario Romano
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L’ALBA

Palermo FBC-Naples FBC-2-4
La foto è del 1909 e riguarda la finale della LIPTON CHALLENGE CUP, la prima in assoluto. Mentre al Nord si proclamano ‘Campioni d’Italia’ già da un decennio, nel Mezzogiorno, per il neonato football, è ancora l’alba. Il 12/04 si gioca, al campo spelacchiato Notarbartolo del capoluogo siciliano, l’atto conclusivo di quello che invece rappresenta un vero e proprio inizio. Ad opporsi al Palermo FBC è il Naples FBC (maglia a righe), che si aggiudicherà il trofeo (2-4 il risultato finale). I Rosanero si rifaranno l’anno dopo e nei successivi, prevalendo sugli stessi partenopei e sul Messina. Osservando lo scatto, salta agli occhi un particolare: si distingue, infatti, un signore che sta riprendendo il match da una posizione elevata. Si chiamava Raffaello Lucarelli, professione ‘cinematografaro’. Il giorno dopo, nella sala Lumiére Edison di Piazza Verdi al civico n.58, hanno visto la gara intera. Io ovviamente non c’ero, come tutti voi, ma si stava facendo la storia. La facevano anche per noi. Zamparini, Miccoli, Pastore, ma anche questo scatto è da ricordare. Perché una generazione che ignora la storia non ha passato…né futuro.
Dario Romano
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LA TRADIZIONE

Un ritorno al passato, con il cambio di denominazione sancito dalla promozione in SERIE C. Nonostante il gap economico con la serie cadetta, il terzo gradino del calcio nostrano è ancora un campionato professionistico. Le compagini della LEGA PRO, in quanto a blasone, non hanno nulla da invidiare al piano superiore. E così da questa estate, il Palermo è di nuovo Football Club. La Società Sportiva Dilettantistica, abbreviata in SSD, ci ha fatto compagnia, nostro malgrado, per una sola storica stagione. Ripercorrere cronologicamente le tappe della ragione sociale del club, può aiutare a fare chiarezza e a stimolare le ragioni ed il battito del cuore, rigorosamente Rosanero.
La fondazione, datata 01/11/1900, ci riporta alle origini con un ammonimento: il nuovo sodalizio trae ispirazione da Albione ma è palermitano, come lo stesso Ignazio Majo Pagano. È lui il nostro padre putativo. Da Portsmouth parte un’idea: le maglie rossoblu, addirittura biancorosse per qualche match, non derivano dal club portuale inglese. La presenza dei britannici, soprattutto di Mister Blake (che a quanto pare ha recitato un ruolo decisivo non solo in campo), giustifica una dicitura da tavola rotonda. Ed ecco l’Anglo-Palermitan Athletic And Foot-Ball Club. Dura sette anni: come sappiamo, dal 1907 i nostri colori sono il rosa ed il nero. Ed il Palermo diviene Foot-Ball Club. La foto da me colorata è relativa a questo periodo: siamo nel 1911, stagione che ci vede soccombere nella finale della LIPTON CHALLENGE CUP al cospetto del Naples FBC. Tre reti a due: poco importa. Alla fine la coppa sarà nostra: definitivamente, come altrettanto scomparsa. Dopo la Grande Guerra, per rivedere le maglie rosa, in campo, bisogna rendere grazie al Racing FBC, una piccola realtà locale che cambia proprio faccia e facciata. Colori biancoazzurri, che tuttavia restano soltanto in quello che viene riconosciuto come il primo crest ufficiale del Palermo, che adesso è Unione Sportiva. Di fatto, non una vera e propria fusione, ma una trasfusione. Non mancheranno quelle autentiche: fino al 1924, quando il Palermo assume la denominazione Football Club. Non porta bene, c’è da soffrire per un fallimento dietro l’angolo, ma all’orizzonte si intravede un’oasi di speranza. Si materializza nel ’32, quando finalmente si disputa la prima SERIE A. Il regime mal sopporta idiomi esterofili e nel ’35 si impone l’Associazione Calcio Palermo. Ci aggiungono tanto di colore: giallorosso da gonfalone, poi biancoazzurro nel ’42 per la fusione con la Juventina Palermo. Nel periodo bellico, la squadra espressione della città è l’Unione Sportiva Palermo-Juventina. Che riconquista la serie cadetta e si riappropria del Rosanero. Finita la guerra, finisce anche la confusione. Dal ’44 si ricomincia a vivere e a giocare: il Palermo cambia di nuovo volto e parte a nuova avventura da Unione Sportiva. Il preludio ad una presenza costante nella massima serie, fino agli anni ’60, passati al gradino inferiore. Nel ’68 la rivoluzione ci tocca e ci porta alla Società Sportiva Calcio Palermo. SSC sta anche per l’ultima promozione prima dell’era Zamparini, ma vuol dire anche due finali di COPPA ITALIA e soprattutto Renzo Barbera. Dieci anni sotto il segno del ‘Presidentissimo’ e allo scadere un nuovo logo da sogno: tremendamente moderno ancora oggi. Maledettamente calpestato da una radiazione che brucia come una città messa a ferro prima del fuoco. La rinascita datata 1987 è firmata Unione Sportiva. Ci si aggiunge Città di Palermo nel ’94, per un binomio controverso che passa in secondo piano. Una decina d’anni prima dell’avvento del patron friulano e di un Palermo che noi poveri umani non potevamo proprio immaginare. Di fatto, un fallimento anche sportivo, nonostante i piazzamenti da record, la terza finale di una coppa che resta maledetta, l’Europa che meno conta. Troppa manna, tanti campioni, altrettanti bidoni ed un esercito di allenatori. Risultato: soltanto briciole. Si poteva andare a comandare e non soltanto per qualche vittoria di prestigio. E adesso, si potrebbe dire Hera Hora: piccoli passi, per un club risorto, ancora una volta, come la Fenice. La tradizione, invece, non è una briciola. Ma il nostro pane quotidiano.
Dario Romano
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I NOSTRI EROI

Fanno tenerezza. Non sembra, ma è proprio così: questi giovanotti che indossano la maglia Rosanero, sono usciti vivi dalla Grande Guerra e vogliono ripartire. La foto risale al 1922, l’anno che vede il sodalizio fondato nel 1900 affiliato alla FIGC. Il lodo arbitrale del Compromesso Colombo pone fine ad una scissione storica che non val la pena approfondire: anche il calcio, è in subbuglio. Da segnalare che, nel nostro piccolo, sette anni prima dello scatto il Palermo si è aggiudicato definitivamente la LIPTON CHALLENGE CUP. Adesso, desidera affacciarsi al calcio che comincia a contare per davvero. Dopo una serie di fusioni, la società sta cambiano denominazione: nel ’24, sarà Palermo Football Club, come al giorno d’oggi. Mancano dieci anni (1932) al debutto assoluto in SERIE A. Non ci sono nomi roboanti, a rappresentare i nostri colori. Le prime vere star, saranno ‘Il Vichingo’ Carlo Radice ed ‘El Mago’, alias ‘La Borelli’: l’uruguaiano Héctor Scarone. Fuoco e fiamme con il danese Helge Bronée, mentre i Cavalieri della Pampa, a cominciare da Ghito Vernazza, a furor di popolo il ‘Rosanero del secolo’, arriveranno in seguito: il meglio, nel nuovo millennio. Samba, garra e salsa all’italiana. Il vero portento: il Romário del Salento, anche se con tanto di malcontento. Fabrizio Miccoli, la stella più luminosa: prima consacrata e poi sconsacrata. Eppure, anche questi giocatori del ’22 devono essere considerati i nostri eroi. Nessun riflettore, alcuna notorietà, una sola possibilità: pochi spiccioli, l’equivalente di un tozzo di pane che, per i tempi, era già tanta roba. La gloria, a cent’anni di distanza. Chissà, qualcuno li riconoscerà: sarà un onore, aggiungere il loro nome.
Dario Romano
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SALTO IN ALTO

C’è sempre una prima volta. Per il Palermo, la svolta arriva quando l’Italia pallonara ha da poco adottato il GIRONE UNICO. Il periodo, è quello della Juve del quinquennio. In generale, tira una brutta aria: venti di guerra, discriminazione razziale, difficoltà a rimediare anche un tozzo di pane. Il sorriso, lo restituisce in qualche modo il calcio. Con le Aquile che fanno bella sfoggia, nella casacca Rosanero. Ci ricordano che non è vietato sognare, anche in tempi di vacche magre. Un salto in alto, per volare oltre la fantasia. A raggiungere il traguardo della prima promozione in massima serie del sodalizio, il Palermo FC che dal Barone Luigi Bordonaro passa nelle mani e nella testa del costruttore Francesco Paolo Barresi, decisivo per la realizzazione del Littorio alla Favorita. Le gare interne, si disputeranno al Ranchibile per tutto il girone d’andata. Il nuovo impianto, farà la differenza. Il team è al suo secondo anno in cadetteria: il debutto, ha lasciato il segno. La promozione sfuma al cospetto di Fiorentina e Bari, che chiudono con due sole lunghezze di vantaggio. Squadra ritoccata adeguatamente e missione compiuta. Le gare interne contro Monfalconese e Spezia regalano soltanto un punto e più di un boccone amaro, suggerendo il cambio del tecnico. L’esonero dell’austriaco Tony Cargnelli è un rischio calcolato: ci si affida all’ungherese Gyula Feldmann, che proprio a Firenze ha dimostrato qualche dote in più. La mossa, è vincente, nonostante un inizio scoraggiante: vittoria roboante contro il Parma, ma il resto è un disastro. Fino a far quadrato: il complesso gioca per il Vichingo, all’anagrafe Carlo Radice, il primo lungagnone della nostra storia. Termine che fa rima con capocannoniere e lo sappiamo bene. Sedici reti non son bastate ed il bomber raddoppia: lo score arriva a ventotto. Il torneo è un guazzabuglio: diciotto squadre, ubicate da Livorno in su. A far compagnia ai Rosanero, soltanto Lecce e Cagliari: il Mezzogiorno è decisamente in inferiorità numerica. La superiorità dei rosa, invece, risulta schiacciante. Ventuno vittorie, otto pareggi e cinque sconfitte. Miglior attacco del torneo, con ben ottanta realizzazioni. Si stacca il Padova di tre lunghezze, ma il divario con la terza è abissale: il Verona è terzo a meno nove. Da segnalare la presenza di sodalizi scomparsi o risorti sotto altra denominazione: i Giovani Calciatori Vigevanesi, quarti a pari punti con l’Atalanta, la Comense, la già citata Monfalconese e la Serenissima, cioè il Venezia. Retrocedono l’Udinese, il Lecce (penalizzato di tre punti per tre rinunce) ed un modestissimo Parma, relegato in fondo con soltanto tre vittorie e nove punti totali. A spiccare il salto, con il Palermo, i Patavini di Lajos Kovács: la panchina danubiana, allora, era un mantra. Feldmann schiera i Rosanero con il modulo tattico in voga, il celebre Metodo. Il Vangelo di Vittorio Pozzo, la Bibbia di Hugo Meisl. Difesa arcigna e contropiede, ma non è tempo di catenaccio. Il WW adottato, identificabile in campo con un 2-3-2-3, vede Plinio Paolini e Aimone Lo Prete presidiare la retroguardia, davanti all’estremo difensore, il portiere Archimede Valeriani. I tre centrocampisti arretrati, da destra a sinistra: Luigi Ziroli, Renato Nigiotti e Luigi Ingrassia. Arrivano i piedi buoni, con i due interni: Guglielmo Piantoni e Antonio Blasevich. Jugoslavo d’origine, stella dell’Ambrosiana, con la quale segnava una partita sì ed una no. Si è alzata l’asticella per davvero, con lo stesso Ettore Banchero, prelevato dall’Alessandria, ed il confermato Américo Ruffino, il primo argentino a farci ballare il tango. Il tutto a supporto del Vichingo. Uno squadrone, che debutterà in SERIE A senza alcun timore reverenziale. Ma questa è un’altra storia., che sarò ben lieto di potervi raccontare. In centoventuno anni di storia, la materia non manca. Buon compleanno, Palermo mio.
Dario Romano
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IL VICHINGO

Il primo vero bomber Rosanero, nonché lungagnone, come Luca Toni comanda. E Lorenzo Lucca ce la sta mettendo pure tutta: ovviamente di testa, ma anche di castagna. Ma ecco il capostipite delle nostre torri, il pioniere: lo chiamavano ‘Il Vichingo’. Tradiscono i tratti ed anche il giganteggiare: nelle aree avversarie. Ma era semplicemente brianzolo: all’anagrafe, Carlo Radice. Ha indossato la nostra casacca, sia classica che strisciata, ma, soprattutto, l’ha messa che era un piacere. Dal 1929 al 1933, 84 presenze e 64 reti. Quattro stagioni (poi una presenza nel ’34-’35) condite da due promozioni, dapprima in cadetteria ed in seguito in SERIE A, la prima in assoluto per i nostri colori. È stato a lungo il cannoniere del Palermo in ogni categoria di tutti i tempi, fin quando Fabrizio Miccoli lo ha superato, 79 anni dopo. Chiuse la carriera nel ’36 al Gruppo Sportivo Acciaierie e Ferriere Lombarde Falck. Capocannoniere della SERIE B, pagò a caro prezzo una relazione extraconiugale, che sancì il suo abbandono della Conca d’oro. Vizi e virtù di un giovane dallo sguardo pulito e di un calciatore come non ce ne sono più. Tornò per un solo match: tanto per capire che non era più aria.
Dario Romano
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UN LOGO IN PIÙ

Quando il Palermo scende in campo per la stagione 1979-’80, indossa un completino che ha fatto storia: è griffato pouchain. Ma a spiccare è soprattutto quel loghetto, che ci ha fatto tutti innamorare. La testa d’Aquila che la testa ancora continua a far girare. Vintage, ma tremendamente moderna e per sempre attuale. L’autore di tale eccezione: Piero Gratton, il designer recentemente scomparso che si è dilettato da par suo lasciando il segno anche nel mondo del calcio. Non solo per il Palermo: il lupetto della Roma, il galletto della Bari ed altri piccoli capolavori. La novità, ben gradita, è durata poco: perché per rivedere un logo, sulla maglia Rosanero, abbiamo dovuto aspettare gli anni ’90. Per tornare al precedente, bisogna fare un bel salto: indietro, di mezzo secolo.
Ettore Banchero arriva dall’Alessandria e contribuisce alla storica promozione: l’attaccante realizza diciotto reti e per la prima volta si sale in SERIE A. Siamo ai primi seri vagiti del nostro calcio e, nel torneo nazionale per eccellenza, stagione 1932-1933, ci siamo anche noi. L’ITALIA si appresta a vincere il suo primo campionato del mondo: seguirà il secondo, prima che il mondo non sarà più lo stesso. Mentre nella massima serie, il Palermo, dimostra di poterci stare: arriva un dodicesimo posto, in condominio con la Pro Vercelli, a distanza di sicurezza dalla zona retrocessione. Ma c’è anche un’altra lieta novella: un rapace che fa sfoggia. L’Aquila domina la maglia, possente e imperiale, come epoca comanda. Non è un crest ufficiale, ma lo stemma comunale. Comunque da annoverare. Pur sempre un logo, comparso per un’occasione speciale. Dimenticato, andrebbe rivalutato. Perché è anche da qui che abbiamo imparato: a volare.
Dario Romano
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LA BORELLI

Appartiene alla categoria dei giocatori a torto dimenticati, ma Héctor Pedro Scarone era soprattutto, e non a torto, un autentico fuori categoria. Semplicemente, un fuoriclasse. Lo stesso Meazza, suo compagno d’attacco all’Ambrosiana, lo definì ‘il miglior giocatore del mondo’. Chi mastica calcio, ricorda El mago accosciato nella foto che ritrae la Celeste campione del mondo 1930 al Centenario di Montevideo. Probabilmente, allora Scarone aveva già dato il meglio di sé. Sicuramente, aveva ancora da dare, poiché l’ultimo match ufficiale in Uruguay lo vede in campo a 55 anni suonati. El Gardel del Fútbol, oltre che Mago, si portava dietro anche un terzo ma non ultimo apelido: era soprattutto La Borelli. Sintetizzando i tre soprannomi: un giocoliere che balla, ti fa sballare e si può arrabbiare. È permaloso, proprio come la diva del cinema. Ma Scarone è anche un vincente campione. Fa incetta di trofei in Nazionale e con la maglia bianca del Nacional. Con i Bolsos, in patria, la sua parabola è egemonia e anche tragedia. Il suicidio di Abdón Ponte non lo sfiora: piuttosto, colpisce lui e tutto il mondo Tricolores (oltre il bianco, c’è di più: rosso e blu). Non siamo ancora al professionismo, non si guadagnano cifre da capogiro, eppure il fútbol in Sudamerica è già cosa seria, oltre che giusta. Attecchisce sui cuori e sugli umori: ti tira su che è un piacere, ma può portarti giù che è un dispiacere. Ma negli anni che precedono la seconda guerra, in Uruguay si sta spesso in vetta. Arrivano l’Oro alle Olimpiadi di Parigi e Amsterdam nel ’24 e nel ’28, quattro affermazioni in COPA AMÉRICA, idem per la LIPTON CUP (da non confondere con il trofeo celebre nel sud Italia: la competizione è antesignana della RIMET CUP). E così Héctor ci ha preso gusto: vuole vincere altrove ad ogni costo. Dura poco l’esperienza al Barcelona: vogliono ricoprirlo d’oro, ma Amsterdam ’28 è alle porte. Sbarrate ai professionisti. Per dire: la gloria al primo posto, la fame non fa arrosto. Nove gare e otto reti possono bastare, per la COPA DEL REY conquistare. Col Nacional si torna pure a segnare (porta lo score da 108 a 137, chiuderà in seguito a 153) ed in Europa si può tornare. All’Ambrosiana eroe puoi diventare: malconcio, tormentato dagli infortuni, Garibaldi (i soprannomi abbondano) realizza una doppietta alla Lazio con il volto tumefatto. L’esperienza più longeva la vive in Rosanero: è proprio il nuovo eroe dei due mondi. Con il Palermo, due salvezze e undici reti a referto. Se nel nuovo millennio al Barbera ci si lustra gli occhi con Miccoli e Pastore, per il secolo alla Favorita le palme vanno a Vernazza e a questo Signore. Che si regala un’altra soddisfazione: sedersi sulla panchina del Real Madrid, anche se per una sola stagione. Il campione ha passato il testimone. La Celeste ne abbonda a iosa. Non è solo un caso: arriva il Maracanãço.
Dario Romano
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IL CELESTE E L’AZZURRO

Stadio del Littorio, 02/10.
PALERMO FC-BOLOGNA SC-0-0
È la prima gara casalinga della stagione 1932-1933. Palermo e Bologna si affrontano il 02/10 allo ‘Stadio del Littorio’, ultimato a Gennaio e costruito dal regime fascista per sostituire l’ormai vetusto campo sportivo del Ranchibile. Dal ’37 fino al ’45, l’impianto sarà intitolato a Michele Marrone, ex giocatore Rosanero deceduto durante la guerra civile spagnola. Per i palermitani, è già ‘La Favorita’. Nella foto restaurata della rivista d’epoca TUTTI GLI SPORTS, i padroni di casa Banchero e Scarone seguono gli ospiti Felsinei Ottani e Buriani. Non ho ritenuto opportuno colorarla, poiché la resa, causa la risoluzione bassa, risulterebbe modesta. I Veltri sono ‘Campioni d’Europa’: dovranno passare più di vent’anni, prima che le visioni del giornalista ed ex calciatore francese Gabriel Hanot ed i sogni del buon Santiago Bernabéu divengano realtà, materializzando la COPPA DEI CAMPIONI. Si disputa la COPPA DELL’EUROPA CENTRALE, che gli emiliani vincono senza dover disputare la finale. Infatti, Juventus e Slavia Praga furono squalificate per gli incidenti della gara di Torino nella semifinale di ritorno. Non è ancora il Bologna ‘che tremare il Mondo fa’, ma a leggere la formazione si capisce che già a tremare dovevano essere piuttosto le gambe degli avversari. Eraldo Monzeglio è un terzino polivalente che facilita il progetto di Vittorio Pozzo nell’adattare il modulo WM alla Nazionale; pur essendo un difensore, è il massimo dell’intensità con il minimo di effetto: l’eleganza. La mezzala Raffaele Sansone, che dalla rosa Celeste iridata nel 1930 si ritroverà a disputare soltanto tre gare in maglia azzurra come naturalizzato. Bruno Maini è un cecchino infallibile e non veste l’azzurro perché il forziere dei tesori è già colmo. Angelo Schiavio ne è il pezzo più pregiato: ondeggia in campo e come una marea decide quando arretrare o sommergere tutto. La potenza si basa sulle armi e le armi sulla tecnica: quando parte la fucilata è sempre nello specchio della porta. Tanta roba anche in maglia rosa. Il centravanti Carlo Radice, ‘il Vichingo’ del goal per l’aspetto nordico: 64 reti in quattro stagioni. Il centrocampista Antonio Blasevich, ex stella dell’Internazionale. Di origini croate, faceva girare la squadra e non disdegnava le incursioni offensive: quaranta reti in tre campionati, per i Nerazzurri. L’uruguaiano Héctor Scarone è campione del Mondo in carica: una sfilza di soprannomi, tra cui spicca ‘la Borelli’ (una diva del cinema muto) per il carattere bizzoso e altezzoso. Per Giuseppe Meazza, è il giocatore più forte mai affrontato. Finirà a reti bianche, un match equilibrato che non vedrà mai più tanti protagonisti eccellenti nei confronti diretti tra i due club. È anche un passaggio di consegne: dallo stesso Scarone a Schiavio e Monzeglio. Nel ventennio dal ’30 al ‘50, la COPPA RIMET è illuminata soltanto dal cielo e dai suoi colori: il celeste e l’azzurro.
Dario Romano
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ROSA, GRIGIO E NERO

PALERMO FC-ALESSANDRIA US-2-0
Per sentirsi maturi, tra i grandi, devi dimostrare di saperci stare. Il primo esame, per il Palermo che debutta in SERIE A, è superato a pieni voti. Non è un fuoco di paglia: la compagine Rosanero si ripeterà anche nelle stagioni successive. Tempi duri per tutti, tra due conflitti mondiali che hanno lasciato e lasceranno il segno. Unica consolazione, il benedetto calcio. Da godersi in un impianto tutto nuovo: lo stadio del Littorio. Tribuna coperta, gradinata capiente, curve appena abbozzate ma assiepate. Sta già stretto, il nuovo salotto. Per prenderci posto, bisogna attendere la terza giornata: i primi ospiti, sono i Felsinei, che impattano a reti bianche. Che squadra, quel Bologna, che tremare il mondo fa. Nomi altisonanti, da Monzeglio a Maini, da Sansone a Schiavio. Non scherza neanche il Palermo: Blasevich, Banchero, Scarone e Radice infiammano i cuori e le aree avversarie. La prima affermazione arriva al quarto appuntamento: un minimo scarto targato Américo Ruffino. Si tratta di un’ala argentina, che in cinque anni la mette trenta volte. Ma il vero fuoriclasse della squadra è Héctor Scarone. ‘La Borelli’ mette la sua firma in calce alla prima vittoria in trasferta, contro i Granata di Libonatti. Dalle foto, si evince che il Torino è sceso in campo in maglia bianca, come la sua bandiera a fine partita. Il massimo torneo, appannaggio della ‘Juve del quinquennio’, vede ridimensionate le altre piemontesi: non sono più i tempi della Pro Vercelli e del celebre ‘Quadrilatero’. Non c’è il Novara, il Casale arranca, ma l’Alessandria non molla. I Grigi Mandrogni, in quegli anni, vanno spesso a braccetto proprio col Palermo. Allenati dall’ungherese Ferenc Molnár (avvicendato dallo svizzero Heinrich Bachmann), chiudono a più sei dalla retrocessa Bari (appena sotto i siciliani), rischiano nel successivo campionato, chiuso per entrambe a due sole lunghezze dal baratro, mentre nella stagione seguente il binomio si fa avvincente. Arrivano settime, in compagnia del Napoli e sopra un modesto Milan. Fino alla separazione ai danni proprio del Palermo, che torna tra i cadetti quando il Bologna interrompe il dominio bianconero e l’Alessandria tiene ancora botta. Ma solo per una volta: la retrocessione, è dietro l’angolo. Da sottolineare la presenza assidua di tecnici stranieri, sulle due panchine: per i piemontesi, oltre ai già citati, tocca all’austriaco Franz Hänsel, poi all’ungherese Otto Krappan (rilevato da un altro austriaco, Rudolf Soutschek), fino all’ennesimo connazionale, Karl Stürmer, che farà posto agli italiani Elvio Banchero e Ottavio Piccinini. Stesso trend, ma più contenuto, all’ombra del Pellegrino, con i magiari Gyula Feldmann a Károly Csapkay, quest’ultimo più longevo del primo. La foto colorata è relativa alla miglior stagione del periodo per entrambi i club. Al Littorio, il 21 di Aprile, Palermo-Alessandria si chiude con il punteggio di due reti a zero per i Rosanero. Partita aperta e chiusa in due minuti: vantaggio di Blasevich e raddoppio di Piccaluga dal dischetto. Un verdetto scritto dal quarantesimo del primo tempo. All’andata, un pirotecnico 4-2 a favore dei Grigi: anche qui, finisce in parità, considerando l’esito del match di ritorno. Per quella sfida che sarà una rarità, almeno in SERIE A: un bel miscuglio di rosa, grigio e nero.
Dario Romano
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VECCHIO FRAC

Con la tragica ed improvvisa scomparsa di Raimondo Lanza si chiude un ciclo epico e dai posteri, purtroppo, spesso dimenticato. Una parentesi breve nella storia Rosanero, ma intensa, come la vita del Principe. Morì nel 1954, in circostanze misteriose e mai acclarate, in seguito a una caduta da una finestra del primo piano dell’Hotel Eden di via Ludovisi a Roma. A lui si deve l’invenzione del calciomercato: con l’allenatore Gipo Viani, si incontrava all’Hotel Gallia di Milano e la squadra prendeva corpo, in tutti i sensi. Celebre l’aneddoto che lo ricorda a ricevere visite per le trattative nella vasca da bagno, nudo e perfettamente a suo agio. Fu lui a scoprire Helge Bronée, che acquistò dal Nancy per 40 milioni. Grazie ai rapporti non indifferenti con il mondo dello sport riuscì a far indossare la maglia del Palermo a molti giocatori di valore, fuoriclasse annessi come ciliegine aggiunte ad una torta già gustosa e ben assortita. Era appassionato di corse automobilistiche e fu protagonista di alcune edizioni della Targa Florio. Ma ad attrarlo erano anche altre competizioni di squadra oltre al calcio, come ad esempio la pallanuoto. Il nobile si tolse la vita un anno dopo il matrimonio (alla vicenda si ispirò Domenico Modugno per scrivere la sua celebre canzone Vecchio Frac).
Il progetto della ‘Juventus del sud’ stava per concretizzarsi e probabilmente lo stivale pallonaro sarebbe stato rivoltato. Raimondo era un vero e proprio tifoso: lo possiamo vedere su Youtube esultare in panchina, felice come uno di noi, per una stupenda vittoria a Napoli. Gli aneddoti riguardo la vita del Principe si sprecano: vi consiglio delle letture davvero interessanti. Su tutte, ‘Mi Toccherà Ballare‘ scritto dalla figlia Raimonda e dalla nipote Ottavia Casagrande. Ma anche ‘Vestivamo alla Marinara‘ di Susanna Agnelli, ‘Il Principe Irrequieto‘ di Vincenzo Prestigiacomo, ‘Il Grande Dandy‘ di Marcello Sorgi, rappresentano uno spaccato del nostro paese in generale e della Sicilia in particolare che val la pena approfondire. Mollate il telefono e concedetevi questo viaggio nel tempo. Non ve ne pentirete.
Dario Romano
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IL CINQUE MAGGIO

Čestmír ‘Cesto’ Vycpálek milita per ben cinque stagioni al Palermo. Di nazionalità cecoslovacca, arriva nel 1947 dalla Juventus, stabilendosi fino al 1952. Finita la carriera al Parma, da allenatore guidò sia i Rosanero che i Bianconeri (due scudetti, in finale della COPPA DEI CAMPIONI ed INTERCONTINENTALE). Si trasferì definitivamente nel capoluogo siciliano, nell’amata Mondello, dove lo raggiunse il nipote Zdeněk Zeman. ‘Il Boemo’ in Sicilia si laurea, trova moglie, si consacra. Non era raro incontrare suo zio materno a Valdesi, la sua casa adottiva: capitò anche al sottoscritto. Mi chiedevo chi fosse quel Signore, spesso attorniato da suoi coetanei. Non osai disturbarlo: oggi lo inseguirei, per abbeverarmi alla sua fonte. Cesto mi torna spesso in mente, a causa di quella data che ogni tanto bussa nella nostra memoria. ‘Il cinque maggio’ Alessandro Manzoni ce lo presenta a scuola e lo rivediamo scritto sui muri per una partita che ha fatto storia. La Lazio toglie all’Inter uno scudetto ormai sul petto. Sappiamo a chi lo cuce. Albert Einstein diceva che ‘la coincidenza è il modo di Dio di restare anonimo’. Ma qui c’è la sua firma: la vita del tecnico viene sconvolta dal disastro aereo di Montagna Longa, dove si schianterà il volo Alitalia 112 in fase di atterraggio all’aeroporto di Punta Raisi. Era il 05/05/1972. Tra le vittime, il povero Cestino, figlio del tecnico. La stessa data di trent’anni dopo, il 05/05/2002, ci lascerà anche Cesto. Tu chiamale, se vuoi, coincidenze. A volte, è solo destino.
Dario Romano
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L’EPICA

US PALERMO-AC TORINO-2-2
È il 06/01/1949, giorno dell’Epifania. Alla Favorita arriva il Grande Torino: la squadra più forte che ne ha calcato il campo. Questa foto si trova da allora nel medesimo impianto, oggi intitolato al Presidentissimo Renzo Barbera, nel corridoio d’ingresso della tribuna vip, ovviamente non a colori ma in bianco e nero. Il Palermo, schierato a centrocampo, affronterà i temibili Granata, visibili sullo sfondo, con il completino da trasferta. L’omaggio è dovuto e necessario: l’equivoco cromatico è dietro l’angolo, con pioggia e fango che contribuiranno a rendere epico un match che, già dalla vigilia, è connotato da un’aura leggendaria. L’attesa qui non è essa stessa il piacere: si andrà ben oltre. Un tappeto di ombrelli fa da contorno ad un’arena che vede un Toro difficile da matare: quello di Valentino Mazzola e relativa banda, vede sempre rosso. Si gioca su un vero pantano, ma gli ospiti sembrano danzare sul velluto: al 41’ Gabetto li porta in vantaggio ed al nono minuto della ripresa Bongiorni raddoppia. Ma non è giunta ancora, l’ora della buonanotte, nonostante un tema già scontato sembrasse seguire il suo normale svolgimento. Capitan Valentino, quando occorreva, sapeva bene come lanciare il suo segnale: si rimboccava le maniche e per il Toro partiva la carica. Ma quel giorno sono gli undici in maglia bianca e nera di tanto sporco, a scatenare l’Inferno. In sette minuti (27’ e 34’ della ripresa) arriva il pari confezionato dalla ditta Pavesi e Milani, ma la portata non basta. È una gara da emozioni forti: nel finale, De Santis sfiora il clamoroso sorpasso del tre a due. Ottanta o novant’anni, l’età di chi quella partita l’ha vista e potrebbe raccontarcela: li invidieremo per sempre. Quattro mesi, invece, la distanza temporale che separa quell’incontro dalla tragedia di Superga. Allora non si usava l’aereo per le trasferte di campionato: il Torino lo prenderà per quella maledetta e fatale amichevole di Lisbona, scaturita da una promessa, fatta dal grande capitano, al pari grado lusitano del Benfica Francisco Ferreira, in difficoltà economiche e desideroso di raccogliere un cospicuo incasso. Il tutto sancito da una semplice stretta di mano: bastava eccome per quei tempi. Bastò per darsi appuntamento con un tragico destino.
Questa foto, dal sottoscritto colorata, è stata pubblicata sul Giornale di Sicilia l’anno scorso, grazie a Giovanni Tarantino. Domani ricorre il tragico evento che nel maggio 1949 ha spezzato le vite dei Tori Granata e i cuori di tutta Italia. Potrete leggere ulteriori approfondimenti, corredati dalle immagini, riguardo la leggenda di Valentino Mazzola e del Grande Torino, sulla pagina Football History e sul sito footballhistorysociety.com, nella sezione dedicata alla FIGC.
Dario Romano
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FALSO NUEVE

Prelevato dalla Salernitana, Alberto Piccinini disputa una sola annata in Rosanero (stagione 1948-1949, con all’attivo 36 presenze e zero realizzazioni). Si tratta di uno dei primi interpreti del ruolo di ‘libero’. Gipo Viani lo schiera nel nuovo sistema con il numero nove: non è follia, ma pura genialità. Ne scaturirà il ‘Vianema’, che nasce proprio a Salerno e si evolverà al Palermo. Non si vede in campo proprio un falso nueve: in pratica, al centravanti avversario è piuttosto deputata la caccia. Il giocatore, tuttavia, in Sicilia tornerà al suo naturale ruolo di centrocampista, ottenendo un undicesimo posto finale, al fianco di giocatori come ‘Cesto’ Vycpálek, Tanino Conti, Aurelio Pavesi, Carmelo Di Bella. A guidarli dalla panchina, Giovanni Varglien, una vera e propria colonna bianconera. Colori juventini che indosserà lo stesso Piccinini, una volta chiusa la sua esperienza all’ombra del Pellegrino. Una toccata e fuga al Milan, prima del ritorno nel 1954 (tredici le presenze, con una sola rete a referto). Brevissima invece la sua avventura in panchina nell’anno successivo, ma anche la sua esistenza: purtroppo, un male incurabile lo porta via ad appena quarantanove anni. Alberto era il padre del telecronista di Mediaset Sandro, celebre per la ‘sciabolata’, il suo indiscutibile cavallo di battaglia. Nella foto, indossa la maglia più bella: nera, con colletto e maniche rosa, i polsini neri. Qui, a farla da padrone, è l’eleganza.
Dario Romano
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IL SENSO DI APPARTENENZA

Aprile 1981: un ragazzino ‘gioca’ con il telecomando. Sono pochi i canali a disposizione. Tra non molto, aumenteranno e nascerà un altro passatempo: lo chiameranno ‘zapping’. Ad un certo punto, il piccolo virgulto si imbatte in uno studio spoglio, ma colorato dalle sciarpe degli astanti. Saranno una decina, seduti e bardati dai colori rosa e nero. Il conduttore della trasmissione è in ansia, poiché è saltato il collegamento. Poi appare una schermata scura, con la scritta bianca tremolante: PISA-PALERMO-1-1. Si esulta come una vittoria in ‘zona Cesarini’, un modo di dire che ancora non conoscevo. Perché il Palermo non sta vincendo, ma ha fatto goal fuori casa: una rarità, spiegano dalla diretta. Due giorni dopo, finalmente, sulla stessa emittente posso vedere la differita. E quelle maglie rosa, i calzoncini neri ed i calzettoni bianchi. Quest’ultimo particolare attira di più la mia attenzione: infatti, fa spiccare il movimento delle gambe dei giocatori. Si muovono al piccolo trotto, come intimorite. I Nerazzurri, invece, corrono come matti ed è un assedio. I Rosanero, che rappresentano la mia città, sembrano piuttosto dei maialini destinati al macello. E mi viene la voglia irrefrenabile di correre da loro per incitarli, maledizione. Ovviamente non a Pisa, ma alla Favorita, che sarà la mia seconda casa, il mio teatro dei sogni. Scoprirò che noi abbiamo il sole e loro la nebbia, che uno stadio può ribollire come un catino e farti battere forte il cuore, mentre battiamo tutti le mani all’unisono, saltiamo come forsennati e urliamo, qualora non fosse chiaro: ‘chi non salta è catanese’. Era la mia piccola guerra: altro che soldatini di plastica. Un colore ben definito contro tutti gli altri colori: il colore di una città multicolore, avvolta del nero di una cronaca sempre più nera. Ti sentivi come un piccolo Davide che prova ad abbattere i tanti Golia, perché gli altri, spesso, erano i più forti. Alcuni si portavano dietro il blasone, quello pesante e tuttavia schiacciato da demeriti che con lo sport avevano poco a che fare. Il Milan, la Lazio: club solo di passaggio, ma con un assaggio che non potranno dimenticare. Di quella Favorita che, a volte, faceva davvero tremare: oltre ai brividi farti provare. Unico, lo scenario mozzafiato: col Monte Pellegrino sormontato dal castello Utveggio: un baluardo come sorta di monito, con quel colore rosa che, guarda caso, lo caratterizza. Quando ci si dispera, abbiamo pure il conforto della vicina Santuzza, che proprio nel promontorio alberga. Per non parlare dell’acustica: musica unica, per le nostre orecchie. Fino al boato che le avrebbe dolcemente assordate. Passano così, le settimane: scandite da vittorie e sconfitte, interrogazioni a scuola per compiti fatti col pensiero altrove, partitelle per strada a ‘Porta Romana’ condizionate dall’esito domenicale. Perché rendevo meglio in tutto, quando il Palermo vinceva, peggio quando perdeva. Un segreto che mi sono portato addosso, in quella che ormai era diventata la mia seconda pelle. Ci si mette anche il nostro simbolo stilizzato, che nel cuore finirà per sempre incastonato. Un’Aquila che stilisticamente ha già sprigionato le sue ali, pur se non si vedono: basta la testa, rivolta a sinistra. Il volo è immaginario, concepito per proiettarsi nei tempi moderni. Nel mio piccolo, invece, me ne stavo con i piedi ben piantati per terra. Avvertivo l’ansia da prestazione, pur se avevamo uno squadrone, almeno a parole o su carta: quella dei giornali, degli almanacchi o degli album targati Panini. Credo che ogni tifoso vero dei Rosanero li abbia vissuti per davvero, questi sussulti interiori, in tutto l’arco degli anni ottanta. C’è anche un capitolo che ho affrontato a parte: un dito che affonda ancora nella mia piaga. Un incubo chiamato ‘Radiazione’: sfocia nel mio primo pianto d’amore. Privato non di un semplice giocattolo, ma di una ragione di vita: quell’altalena infinita, che mi accompagnerà per il resto della mia esistenza. Allora come oggi, mi sentivo un leone, quando si avvicinava la gara da disputare in casa, un agnellino quando leggevo la destinazione del prossimo appuntamento. Trieste, Varese, Brescia, Cremona e sempre più giù, da Nord a Sud per tutta l’Italia, fino a Catania: la partita che valeva una stagione, all’andata ed al ritorno, senza distinzione. Ci si preparava sempre, per quella battaglia dalla connotazione sportiva: non ho mai avuto paura, neanche quando ho messo piede su spalti avversi, tutt’altro che accoglienti. Con quel muro che sembrava infinito, gremito di ultras avversari col coltello tra i denti. Purtroppo, alcuni lo avevano per davvero ed erano pronti anche a fare male: per la preoccupazione di mia madre, che lo aveva sempre immaginato, quel lato scellerato. La violenza non mi ha mai sfiorato: speravo che a prendere lo scalpo, fosse soltanto il mio Palermo. Lo stadio come un’arena, con gli astanti ad incitare i protagonisti in campo, i gladiatori dei tempi moderni. Si rovescia l’ordinario per uno spettacolo straordinario, a prescindere da quanto offerto dai ventidue in quel rettangolo che racchiude il gioco più bello del Mondo. Ad accompagnarmi, una certezza: almeno per quanto riguarda la visione che mi si spalancava dalla curva casalinga, la mitica nord. Quella centinaia e passa, al seguito dell’ospite di turno, doveva proprio farsela addosso. Un Inferno, perché la Favorita sembrava proprio una bolgia. Poi è cambiato tutto: non ci avrei mai creduto, neanche se ad annunciarmelo fosse sceso un Angelo, mandato dalla Dea Eupalla di Breriana memoria in persona. Quando è arrivata la tanto agognata SERIE A, accompagnata dall’Europa, in quella carrozza affollata da un esercito di buoni, ottimi giocatori e qualche campione, il mio catino ha cessato di infondere calore, dopo lo scontato boom iniziale. Oggi, che si è tornati a soffrire come a quei tempi di vacche magre, lo stadio intitolato a Renzo Barbera ci regala uno spettacolo riservato a pochi intimi. Sono loro, quelli che lo sanno: cos’è il senso di appartenenza, spesso tirato in causa a vanvera. Il destino così ha voluto: figli, non ne ho avuto. Peccato, perché mi sarebbe piaciuto, trasmettere la mia passione alla prole. L’amore per una squadra è diverso da quello che si prova per un’altra persona. Non si inculca, non si infonde: inoltre, non tradisce. Anche se ‘non ci sono i soldi’, se ti senti pugnalato alle spalle. Il corollario comprende personaggi spregevoli, che tramite le loro azioni ti distaccano pian piano da quel rifugio speciale che vorresti intoccabile. Non mi cruccio, ma guardo e passo: tanto, la mia squadra, non la lascerò mai da sola. Il Palermo non è il padrone di turno, compreso qualche pagliaccio presto svelato, non è neanche l’ultimo bidone annunciato come l’ennesimo ‘colpo’ di mercato. Il Palermo è raccontato anche da splendide foto, che ho restaurato e colorato, sempre più innamorato. Come questa, che ritrae l’estremo difensore dei Rosanero Vittorio Masci alla fine degli anni ’40. Nello scatto, mi vedo come purtroppo non sono mai stato. Oltre che giocatore, un padre che cerca di trasmettere una tra le tante ragioni del cuore: importante, oltre l’apparente. Ma non si passa mica il testimone, con il senso di appartenenza: si può comunque spiegare come ho fatto con queste parole, scaturite dai ricordi di un ragazzino colpito da un colpo di fulmine. Il mio punto di vista: da una curva o dal chiuso di una stanza. In compagnia di una radiolina, di una voce amica e del libero spazio all’immaginazione. Un’esperienza in comune con una razza, ormai, in via d’estinzione.
Dario Romano
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LA JUVE DEL SUD

Back row L-R: Di Maso, Santamaria, Vicovaro, Bronée, Vycpálek, Giaroli, Bülent.
Front row L-R: Foglia, Gimona, Micheloni, Bertocchi.
SERIE A
11st
Diecimila lire. Una scommessa reale: non è una burla. Il Principe Raimondo Lanza di Trabia fa sul serio. Vuole sfidare la Juve, ma ci aggiunge il tocco di classe: in tutti i sensi. Si affida a Gianni Agnelli: chiede, scruta e, perché no, copia. Non gioca sporco: si è reso conto che, nel calcio, spendere non basta. Gli uomini giusti al posto giusto ed il gioco è fatto: il risultato, uno squadrone che fa sognare e dimenticare. Troppi fantasmi, allo sfondo e fino in fondo. Il Palermo, per Raimondo, è uno svago e sta per diventare un vizio. Il resto, è leggenda. Quella che vedete schierata alla Favorita è una delle formazioni Rosanero tra le più competitive di sempre. Un gradino sotto al ‘Palermo miracolo’, una buona spanna altrettanto prima dell’avvento del nuovo millennio, sotto il segno del zampariniano. Il complesso guidato da Remo Galli inizia la stagione della consacrazione col botto: la massima serie edizione 1951-1952 vede ai nastri di partenza un Palermo pronto all’assalto. L’obiettivo, è migliorare il decimo posto e dare fastidio alle grandi. Fino ad un certo punto, poiché il colpo grosso sembra anticipare le più rosee previsioni: il percorso verso la gloria, sembra accorciare i tempi. I meriti di ‘Gipo’ Viani, che col Presidente ne ha viste di tutti i colori, risultano evidenti. Il suo modulo, passato ai posteri come ‘Vianema’, nasce a Salerno e si evolve a Palermo. ‘Lo sceriffo’, che nel calcio italiano traccerà un solco bello grosso anche per vicende meno lusinghiere, modifica il ‘Sistema’ adottando una figura che per l’Italia pallonara sarà storia: il ‘libero’, che interpreti eccelsi porteranno a raffinare fino a farne un ruolo chiave. L’idea è chiara: contro avversari più forti, bisogna coprire la retroguardia senza vergogna. Il talento affidato al reparto avanzato, può fare la differenza e si può provare anche a vincere. Viani passa alla Roma, relegata in serie cadetta: lascia una squadra collaudata, già arricchita da elementi di spessore. Il fuoriclasse, è la ciliegina di una torta ben farcita. Helge Bronée non ha bisogno di presentazioni: è il danese, il più forte. ‘Cesto’ Vycpálek e Dante Di Maso lo sono altrettanto, ma il fuoco dentro è appannaggio del vichingo. Si parte forte e si evince che è proprio la difesa, a tenere botta. La squadra resta imbattuta fino all’undicesima giornata. La vittoria a Napoli, con le reti di Bronée e Giaroli, inorgogliscono un Principe che non crede ai suoi occhi. La scommessa con l’amico e rivale dall’altra parte dello Stivale non sembrerebbe azzardata. Un filmato d’epoca ritrae a bordocampo un Raimondo felice, partecipe alla festa dalla panca. Ma è un fuoco di paglia. I segnali che il giocattolo sta per rompersi arrivano presto: l’incornata a domicilio del Toro il primo segnale. La reazione col Padova prelude al tracollo, proprio a Torino, al cospetto di una Juve rivelatasi fin troppo forte. Gli italiani Ermes Muccinelli e la ‘Marisa’ Giampiero Boniperti, spalleggiano un sontuoso John Hansen. C’è del buono in Danimarca, altro che marcio. Il connazionale di Bronée risulterà capocannoniere di un campionato che in vetta incorona la Signora. Le milanesi ben staccate: il Milan campione in carica chiude a meno sette lunghezze. Il Palermo, d’altro canto, perde le sue sicurezze e si trasforma: in peggio. La difesa barcolla: con le grandi, imbarca troppa acqua e affonda. Una metamorfosi assurda: neanche il cambio al timone basta, per riprendere la giusta rotta. Guido Masetti, che ha fallito con la Lupa, retrocessa a mal partito, non fa meglio col Palermo. Una corazzata che deve accontentarsi di un anonimo undicesimo posto. Un passo indietro nella graduatoria, rispetto alla stagione precedente. Una serie utile rimasta a memoria imperitura ed un terzo posto a tre punti dalla vetta: a Natale, sotto l’albero, a Palermo qualcuno ci ha visto anche lo scudetto. Il progetto finisce qui: il Principe abdica. Passa la carica al Barone Carlo La Lomia. Poi, la stessa favola iniziata con una scommessa, finisce in tragedia: il nobiluomo ci abbandona. Prima Riva, poi Maradona. Ci han pensato loro, a rivoltare il calzino e realizzare i sogni di gloria del Mezzogiorno. A mezzanotte, invece, si spengono i rumori, i fanali. E si vede soltanto lui: un uomo in frack. Addio al Mondo: ma ai ricordi, no. Vero, Raimondo: era troppo bello, quel Palermo.
Dario Romano
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LA CORAZZATA

Back row L-R: Martini, Gimona, Micheloni, De Grandi, Bronée, Santamaria, Bertocchi.
Front row L-R: Di Maso, Vicovaro, Giaroli, Foglia.
SERIE A
11st
Alla Favorita si gioca Palermo-Como: finirà 4-1 per i Rosanero. Nonostante l’undicesimo posto finale, questa è da considerarsi una delle compagini più forti di sempre, prima dell’era Zamparini. Bertocchi, Giaroli, Ninetto De Grandi, Gimona ed in attacco tanta roba. Siamo alla sesta giornata della stagione 1951-1952, iniziata nel migliore dei modi, con un filotto di undici gare da imbattuta. Il Palermo sembra davvero una corazzata. La vittoria a Napoli del 02/12, rappresenta il punto più alto di un sogno che avrà un brusco risveglio. Arrivano quattro sconfitte nelle ultime otto gare del girone d’andata: si rientra quindi nei ranghi, dopo aver raggiunto il terzo posto a due punti dalla coppia di testa, doppiamente strisciata in biancorossonero. Il completino del Palermo fa guardare Juve e Milan dall’alto verso il basso, ma la classifica recita altro. Nono titolo per i Bianconeri, Diavolo staccato di sette lunghezze. Per il club del Presidente Raimondo Lanza di Trabia (all’ultimo atto di un’opera che finirà in tragedia greca), allenato da Remo Galli ed in seguito da Guido Masetti, soltanto una posizione centrale nella graduatoria. Undici vittorie, quattordici pareggi e ben tredici sconfitte, ad indicare come, ad un certo punto, il giocattolo si sia rotto. Come il suo pezzo forte, Helge Bronée. Il più presente, il cannoniere della squadra, con undici realizzazioni. Il danese dal carattere bizzoso: una molla capace di portarti tanto in alto quanto in basso. Il prezzo da pagare? Quello del biglietto: lo spettacolo, al fianco di Di Maso, era comunque assicurato.
Dario Romano
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IL VIZIETTO

Dante Di Maso è stato per 55 anni al primo posto tra i goleador di tutti i tempi del Palermo in SERIE A, superato da Fabrizio Miccoli durante la stagione 2009-2010. Era sparito completamente dai nostri radar, come spesso accade nello sport: la memoria degli appassionati per caso, è troppo corta. La velocità, il suo punto di forza. Il vizietto per il goal, il suo marchio di fabbrica. Donne, calcio e Grande Torino, le sue passioni. Il destino è comunque in agguato, per un’ala che avrebbe potuto giocare al fianco di Valentino Mazzola. Il consiglio del padre dirotta Dante in Sicilia e lo allontana dallo schianto di Superga. Chissà, se anche la pipì di una farfalla può scatenare uno tsunami, un Di Maso in Granata avrebbe potuto riscrivere il romanzo della pedata. La poesia, in questo caso, sta tutta all’ombra del Pellegrino. Un assaggio in Rosanero nel 1947-1948 (sei presenze, una rete). Dopo l’esperienza di un anno all’Arsenale Messina, torna al Palermo e ne fa la storia. Tra il ’49 e il ’55 ben quarantuno reti (una valida per gli spareggi) in 158 gare: quaranta è tanta roba e record, prima dell’avvento del Romário del Salento. Tanto rosa, nella vita di questo attaccante: sensibile sotto porta e alla vista di una bella e dolce donna. La più importante della sua vita, sua figlia, sparisce in circostanze tragiche ed ecco bussare il nero. L’amaro prende corpo, come il Morbo di Alzheimer. Ci pensa il brutto anatroccolo con i piedi di velluto, a farlo tornare alla ribalta: a farne le spese, soltanto il primato, quello che in molti avevano dimenticato. La maglia: una delle più belle di sempre. I laccetti al collo la rendono unica: è l’effetto british style. Il temperamento, da gran portento. Il goal, uno scherzetto: che ghigno. Dante aspetta il fischio d’inizio: vuole segnare ancora e godersi la serata. Un lupo, che ancora non aveva perso il vizietto.
Dario Romano
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DANISH DYNAMITE

La classe fuori controllo.
Attaccante, Helge Christian Bronée esplode nella squadra francese del Nancy. Nel 1950 viene ingaggiato, per quaranta milioni di lire, dal Palermo del Principe Raimondo Lanza di Trabia, che lo ha scoperto durante un suo viaggio di piacere, assistendo alla partita contro il Grenoble. Volle portarlo a tutti i costi in Sicilia. Era lui a palleggiare nei salotti della dimora principesca? Era lui Raggio di Luna? No, piuttosto, un fulmine a ciel sereno. Ben presto, entra in contrasto con l’allenatore dei Rosanero Gipo Viani: durante una partita, la sua squadra, per difendere il pareggio, si chiuse a catenaccio e lui, non gradendo, si spostò in difesa, fino a realizzare una clamorosa autorete. Negli spogliatoi, fu di conseguenza preso a botte dal suo allenatore (episodio tuttavia da verificare, dal momento che le statistiche non menzionano sue autoreti). Ma anche fuori dal campo, Helge aveva un carattere indisciplinato, che ben presto gli causa antipatie all’interno della società: la sua permanenza si riduce a due stagioni (1950-1951 e 1951-1952) con settanta presenze e ventidue reti a referto. La sua carriera prosegue nella Roma, ma anche qui il temperamento rissoso gli crea qualche problema: dopo un match contro l’Inter, fra lui e il suo compagno di squadra Arcadio Venturi sorge un diverbio, culminato con il lancio di una scarpa sulla faccia di un dirigente di riguardo, il dottor Campilli, figlio di un ministro. Bronée viene messo fuori rosa, ponendo così termine alla sua avventura in giallorosso. Nel 1954, approda alla Juve, dove rimane una sola stagione, totalizzando ventinove presenze e undici reti. Nel campionato successivo, conclude la sua parentesi italiana in Piemonte, nel Novara. Per il biondo vichingo, contiamo, in totale, 197 presenze e 55 reti in massima serie. Si tratta, sicuramente, di uno dei primi veri fuoriclasse ad indossare la maglia Rosanero. Se non condizionata dai limiti caratteriali, la sua carriera avrebbe potuto essere ben diversa. Chiude con il B 93, nel suo paese natale.
Johan Cruijff sosteneva che i danesi si adattano in fretta e imparano presto le lingue. Ed è così che, dalla fredda Danimarca, ti ambienti a Palermo: Bronée e Simon Kjær gli danno ragione. Ma nel calcio, in Danimarca, c’è più del buono e non del marcio? L’eleganza non è farsi notare, ma farsi ricordare. Helge, fuori dal campo, non era uno stinco di santo. Ma nel rettangolo verde, un satanasso. Priorità al gesto tecnico, classe sopraffina, la bellezza a scapito della potenza. Come un dio dell’Olimpo, tanta grazia. Ma anche tanta ira. Un vero e proprio precursore della Danish Dynamite, condita con una buona dose di sale e pepe. Dopo aver infuocato i cuori degli astanti, si incendiava tutto il resto, compresa una carriera che non è stata come avrebbe potuto essere. Perché anche gli Dei, sanguinano.
Dario Romano
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MAMMA LO TURCO

Due stagioni indimenticabili in Rosanero: 1950-1951 e 1952-1953, con un totale di 50 presenze e 20 realizzazioni, per questa autentica pellaccia turca. Şükrü Mustapha Gülesin è una leggenda del Palermo. Acquistato dalla Lazio, arriva inizialmente prestito ma disputando in biancoceleste la stagione di mezzo, la sua migliore, considerando il quarto posto finale dei capitolini e le sue sedici reti. Sono tantissime, per la SERIE A dell’epoca. Iniziò la carriera come portiere, ma ben presto si trasformò in attaccante. Era un giocatore di stazza imponente (191 centimetri per quasi cento chili), ma abbastanza debole e indolente nei contrasti. Comunque sufficientemente veloce, soprattutto abile rigorista e specialista nei calci piazzati. ‘Il Sorridente’ era uno che le dava e le prendeva, non solo in partita. Coinvolto in una rissa (nella foto sopra, fa invece da paciere), rischiò la pelle a suon di bastonate: fu ritrovato lungo disteso e con il volto insanguinato. Da Istanbul a Palermo, resta ovunque brava, la notte. Le botte, piuttosto, meglio in campo. Poiché possedeva davvero una gran castagna: in un Palermo-Padova del 12/11/1950, finita 3-1, il malcapitato portiere avversario Enzo Romano preferì scansarsi, anziché affrontare una sua conclusione dal dischetto. Avrà pensato: ‘mamma, lo turco!’, visibilmente spaventato. Ma il pericolo, con Şükrü, non arrivava solo dall’area: il suo talento nel battere i corner a rientrare gli valse ben 32 trasformazioni direttamente dalla bandierina, considerando tutta la carriera. Altro che Massimo Palanca. Tornerà in patria, dove chiuderà con il Galatasaray. Con i Leoni le soddisfazioni finali: conquista il titolo in Turchia e poi si diletta. La sua firma, dopo il campo, pure da giornalista sportivo lascerà il segno. Chi l’avrebbe mai detto.
Dario Romano
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RAGGIO DI LUNA

Al Palermo per tre stagioni (fino al ’55), l’argentino Enrique Andrés Martegani realizzerà 21 reti in 93 presenze. Si trattava di un centrocampista offensivo ma, all’occorrenza, anche una punta di ruolo. All’uopo, il virgulto era soprattutto un fuoriclasse. Ma era anche Raggio di Luna? Chi palleggiava nei salotti della dimora del Principe? Era il sudamericano o il danese Bronée?
Raimonzo Lanza di Trabia ci ha lasciato una serie infinita di aneddoti, ma anche un’eredità alla moglie, Olga Villi. Era proprio il cartellino del giocatore proveniente dalla Pampa. ‘La padrona di Raggio di Luna’ è una commedia musicale che vedeva tra gli interpreti la stessa Olga, la celebre moglie del Vecchio Frac. La storia è questa: il Presidente acquista al calciomercato un giocatore abilissimo nel palleggio, ma l’allenatore Gipo Viani non sa che farsene. Difficile collocarlo nel suo ‘Vianema’, il sistema di gioco che prende il nome proprio dal suo conduttore. Si tratta di una semplice revisione del Sistema, con l’introduzione del libero, adottata precedentemente alla Salernitana. Lapidaria la risposta del magnate Rosanero: ‘Vorrà dire che lo terrò a palleggiare nel giardino della mia villa…’ Lo farà anche all’interno, attento a non danneggiare il prezioso mobilio principesco. Alla sua morte, il cartellino del calciatore diviene di proprietà dell’attrice: si tratta di un caso più unico che raro. La vicenda tuttavia assume nel tempo i toni del mistero: infatti, non è ben chiara l’identità del calciatore ereditato. Poteva essere Martegani, poteva essere il danese Helge Bronée o l’italiano Luigi ‘Gegé’ Fuin. Una cosa è certa: il vero Raggio di Luna è Arne Bengt Selmosson, lo svedese, così soprannominato, che ha indossato entrambe le maglie della capitale, Roma e Lazio.
Dario Romano
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SANTIAGHITO

Santiago ‘Ghito’ Vernazza durante una sessione di allenamento alla Favorita. Vestirà il Rosanero per quattro stagioni, dal 1957 al 1960, totalizzando 115 presenze e 51 marcature. Una media ragguardevole di quasi un goal ogni due gare: valgono anche una promozione per una sola stagione. L’illuminazione, al suo secondo anno di permanenza: col Palermo sotto di una rete al cospetto del Como, realizza una tripletta negli ultimi sei minuti, ribaltando e asfaltando i Lariani. E mette in mostra pure la castagna contro l’Alessandria, colpendo i Mandrogni su calcio di punizione da quasi quaranta metri. Il tiro potente, aveva una capacità innata di stoppare il pallone al volo con la coscia e tirare prima ancora che la sfera toccasse terra. Nel 2000, allo scadere del centenario della società, il Giornale di Sicilia indice un referendum popolare: chi è il più grande giocatore Rosanero del secolo? L’argentino vinse nettamente. Nella sua ultima stagione all’ombra del Pellegrino, annata targata 1959-1960, Santiaghito ha assunto anche la veste di allenatore per un solo giorno. Infatti, il 15 maggio Čestmír Vycpálek viene esonerato dal segretario Totò Vilardo poco prima di un Inter-Palermo ed il Cavaliere della Pampa è chiamato a prendere le redini della squadra. Allenatore e giocatore, perché in campo, quel giorno, c’è anche lui. Ne scaturirà un pirotecnico 3-3, con Vernazza pure a segno per il goal del momentaneo 1-1. Potenza, controllo e soprattutto una mentalità vincente. Era questo, Santiago. Un fuoriclasse, un autentico leader. Membro erede di quel meccanismo perfetto che era la celebre Máquina. Scuola River, non mente.
Dario Romano
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LOS CABALLEROS

Muñoz, Moreno, Pedernera, Labruna y Loustau. Una filastrocca che ogni appassionato del futebol conosce a memoria. È la celebre ‘Máquina’, partorita dal giornalista uruguaiano Borocotó sulle pagine de ‘El Grafico’. Un quintetto offensivo da leggenda: in Europa solo la storia del Real può vantare tanta manna. Li chiamavano anche ‘Los Caballeros de la Angustia’, quell’ansia che ti attanagliava fino all’ultimo, perché potevano farti male fino al fischio finale. Quando ‘El Maestro’ Adolfo Pedernera lascia la squadra per l’Atlanta e poi la Plata e la Pampa per la Colombia, il meccanismo s’inceppa. Alla macchina serve un nuovo carburatore e torna alla perfezione con un vero campione. Un fenomeno: Alfredo Di Stéfano. La Saeta Rubia, un cavallo purosangue per un motore che torna a ruggire e a volare. In tutti i sensi, perché l’allievo raggiunge il maestro nella casetta a Bogotà. E qui entra in gioco un altro Caballero di razza: Santiago Vernazza. Ghito attira l’attenzione del River per la sua media realizzativa al Club Atlético Platense: segna un goal ogni due match. Con i Los Millonarios tanta grazia si può ulteriormente aggraziare e va in porto l’affare. C’è da lavorare, perché la tecnica è da affinare. Ma questo nuovo Caballero, ha il suo cavallo di battaglia nel controllo della palla e nella potenza. Stop e tiro al volo ed è sentenza. Il ricamo è nei piedi di Walter Gómez: l’uruguaiano predilige la trequarti, ma si alterna con l’argentino al centro dell’attacco. La media goal di entrambi rimane di tutto rispetto, ma non arriva certo ai livelli del quintetto leggendario. La Macchina si è di nuovo inceppata: questi due non sono figli della casa. Dove ti insegnano un’altra filastrocca: parte dal cuoio e finisce con la mucca, perché sulle sponde della Plata si gioca palla a terra, o a filo d’erba che dir si voglia. In più, le sirene del Mediterraneo mandano echi assordanti ed inducono a tentazione. Parte Walter per Milano, ma i milioni ai Rossoneri arrivano dal Palermo, che piazza due colpi forte: uno al cerchio, l’altro alla botte. Ed è un cerchio tondo per davvero: visibilmente sovrappeso, gioca al rallentatore ed anche sporco. L’età non è proprio quella del passaporto, come la sua classe che non è acqua, ma un’altra cosa è Vernazza: la botte, qui, è di ferro. Quello rovente. ‘El Botija de oro’ non era scarso, ma in Rosanero ha fatto il bidone. In Sudamerica, un’istituzione: peccato. Santiaghito, invece, ci ha mostrato di che pasta è fatto un campione. Ecco l’ansia, ecco l’angoscia: alla Favorita le penne, ci si lascia. El Caballero si prende del capitano la fascia e ci spalanca la mascella: non solo quella, anche le porte. E inizia una tradizione: da Martegani a Pastore, da Vázquez y Dybala fino al Matusa, quel Santana che ancora balla. Qui, del tango, non ci si stanca: grazie ai nostri Caballeros della Pampa.
Dario Romano
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DALLA PAMPA CON FURORE

‘No, ragazzi, così non va. La pelota vuole carezze. E si gioca a filo d’erba.’ Da qui nasce una filastrocca che al River Plate ti insegnano fino a farti il lavaggio del cervello. I Cavalieri della Pampa ne diffondono il verbo: è toccato anche a Di Stéfano. Quella frase in alto è la prima lezione che Don Alfredo riserva ai suoi nuovi compagni del Real, già al primo allenamento. Lui li ha già resi Galácticos, insegnando loro che prima di scaricare una bomba, ci vuole testa e soprattutto grazia. La vieja sa rendere grazie e vedrete, vi ripagherà. Classe e forza, potenza e controllo: il binomio perfetto, le stimmate del fuoriclasse. Al Palermo, si inizia con Scarone e si prosegue con Bronée: la garra uruguagia e la forza vichinga abbinate al fioretto. E poi arriva lui: il giocatore perfetto. ‘Il Rosanero del secolo’ all’unanimità eletto. Nella foto, sembra di vedere un leone affamato: il suo territorio di caccia è l’area, ma anche tutto intorno ti fa girar come fossi una bambola. Il Cammino di Santiago parte proprio dalla sponda della Plata, dove affina le sue doti, mostrate a suon di reti, in maglia Platense. Los Calamares vanno indietro, ma per Ghito un bel salto in avanti non risulta più lungo della sua gamba. Un trampolino, un’eredità pesante: superati entrambi a pieni voti. E quando l’ultimo dribbling poteva risultare un azzardo, al diavolo anche la filastrocca. E partiva la bomba: furore e poi fragore. Al Monumental prima, alla Favorita poi: ne hanno viste di cannonate. Il boato, una conseguenza: chi ha segnato, se non Vernazza.
Dario Romano
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L’OMAGGIO

Nell’anno della promozione, con Santiago Vernazza indiscusso trascinatore (è la stagione ’58/’59), succede che il Palermo venga omaggiato alla Favorita dalla gradita presenza di Gino Bramieri e Raimondo Vianello. I due artisti hanno lavorato spesso insieme e di Vianello conosciamo tutti la passione che nutriva per il calcio. Pressing è stata una delle migliori trasmissioni sportive Mediaset, soprattutto per i toni rilassati e anche competenti del compianto Raimondo. I convenevoli a centrocampo vengono espletati dal capitano Enzo Benedetti. Autentico jolly di centrocampo, il ligure spende quasi tutta la sua carriera agonistica in Rosanero, avendo totalizzato sporadiche presenze con Spezia e Latina e ben 273 da Aquila, prima timida e poi più che Reale. Da aggiungere altre undici caps, che lo portano a 284: Benedetti è secondo soltanto a Biffi. Di reti, neanche a parlarne: la soddisfazione arriva da una realizzazione in COPPA ITALIA. Se aggiungiamo le tre promozioni, raggiunte nell’arco di dieci stagioni (1955-1965), ci rendiamo conto dello spessore di un grandissimo professionista, in seguito allenatore nelle serie minori (un campionato di SERIE D vinto a Siracusa) con tanto di soddisfazione finale. Commissario Tecnico, dal 1982 all’84, della Nazionale femminile: oggi tanto di moda, allora e fino a poco tempo fa in coda alle preferenze sportive del nostro Belpaese.
Dario Romano
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IL CAMMINO DI SANTIAGO

Back row L-R: Benedetti, Latini, Perli, Malavasi, Pontel, Sereni.
Front row L-R: Vernazza, Azzali, Piovanelli, De Bellis, Sandri.
SERIE B
2th / promosso in SERIE A
La potenza, ma anche tanto controllo. Al River Plate, Santiago Vernazza ha affinato le sue doti: ha imparato che la pelota si gioca a terra, si accarezza e, quando occorre, bisogna sculacciarla a dovere. Non si offenderà. Di tanta grazia rendiamo grazie e torniamo in SERIE A. Una cavalcata che il Cavaliere della Pampa conduce da par suo, a spron battuto. Ben diciannove botte per diciotto vittorie, uguale promozione. Ghito prende questo Palermo per mano e ci mostra il Cammino di Santiago. Per amici, parenti e conoscenti, sarà sempre Santiaghito. Per i tifosi, il giocatore Rosanero del secolo. Ma il resto della cavalleria, non resta mica a guardare. De Bellis, Sereni, Benedetti, Malavasi, Biagini, Sandri: una corazzata. C’è anche il pacco annesso: Walter Gómez in patria è considerato un campione, ma alla Favorita sembra un bidone. Non si è vista la garra uruguagia, ma neanche la classe appresa a la Plata. Da Montevideo a Buenos Aires è crack, mentre a Palermo soltanto un gran flop. Arriva con un anno di ritardo, l’altro pacco: ma questo, all’apertura, fa proprio boom. Le cannonate partono dalla seconda giornata, per un pirotecnico 5–4 al Lecco. Suona anche un campanello d’allarme: al debutto tre pappine dalla Simmenthal-Monza, rimediate anche a Bergamo. Il 3–2 con l’Atalanta fa meno rumore: gli orobici chiuderanno al primo posto, a quota 51, due punti in più del team guidato da Vycpálek. Sono forti. Cesto registra la difesa e non le prendiamo più: spesso basta una sola rete per la vittoria, mentre al Parma va proprio male (7–1 il finale): torna dalla Sicilia con un bel cappotto, appesantito da una memorabile grandinata. Il resto della scalata, una passeggiata: sotto il segno di Vernazza, col cuore in mano, ecco il Cammino di Santiago.
Dario Romano
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PER UN PUNTO

Back row L-R: Grevi, Anzolin, Vernazza, De Bellis, Malavasi, Benedetti.
Front row L-R: Arce, Sacchella, Greatti, Valadè, Carpanesi.
SERIE A
16th / retrocesso in SERIE B
Viene ricordato come il campionato del caso Cappello, giocatore del Genoa colpevole di illecito sportivo. Ben diciotto punti di penalizzazione per il Grifone, che ovviamente finisce ultimo. La cappellata, purtroppo, è anche Rosanero. Si capisce già dai risultati rimediati a livello internazionale: la COPPA DELLE ALPI, una novità ben gradita e altrettanto onorata, ci vede prevalere sugli svizzeri del FC Zürich, ma la MITROPA è una corrente alternata targata Diósgyőri VTK. Gli ungheresi vincono in Sicilia all’andata e perdono in casa al ritorno. In SERIE A, si chiude con due punti in più dell’Alessandria, ma purtroppo uno in meno rispetto all’Udinese. Un vero peccato, poiché, in zona retrocessione, la classifica è cortissima. In alto, trionfa la Juve, al suo undicesimo titolo. Stacca la Fiorentina di otto lunghezze, a quota 55. Per il Palermo, ventisette punti realizzati a fronte di sei vittorie, quindici pareggi e tredici sconfitte. Il team allenato da Čestmír Vycpálek disputa tre trasferte nelle prime quattro giornate: si rimedia soltanto un punto all’Olimpico, contro la Roma. Alla seconda, cade la Sampdoria alla Favorita. Insomma, non ci si strappa i capelli, ma bisogna mettersi gli occhiali. Infatti, arrivano quattro risultati a reti bianche e due scoppole rimediate a Bologna e Firenze. Felsinei e Viola asfaltano i Rosanero con i punteggi di 3-1 e 5-0. La sconfitta seguente subita a Bergamo, di misura contro gli orobici, ci consegna una statistica disarmante: Vernazza & Company la mettono dentro una sola volta in ben sette gare. Il cambio in panchina (a Cesto subentra Eliseo Lodi, ex mediano nostrano) porta dei benefici alterni, rivelando un Palermo piccolo contro le piccole e grande al cospetto delle grandi. All’ombra del Pellegrino, cadono Roma e Milan, con i Bianconeri, già scudettati, che strappano un punto all’atto conclusivo del torneo. Un epilogo amaro, considerando il valore dei giocatori: soprattutto coloro che, nella foto, stanno in piedi. Da Anzolin a Tonino De Bellis, dal recentemente scomparso Malavasi a Benedetti. Ci ha provato, Ghito, che va a segno nove volte senza saltare un match. Termina qui, la sua splendida avventura in maglia rosa. Sta per indossare la casacca rossonera: si confermerà per quello che era. Santiago Vernazza, attaccante di razza.
Dario Romano
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IL RE

Metin Oktay disputa una sola stagione al Palermo, quella del celebre miracolo costruito dal segretario Totò Vilardo. Nel 1961-1962, i Rosanero chiudono all’ottavo posto. Sono appena dodici le presenze, con tre marcature. Quando arriva in Sicilia, il turco è già un’istituzione del Galatasaray di Istanbul. Attaccante prolifico, realizza 103 reti in 105 presenze: una media di quasi un goal a gara. Ma nel Palermo di Remondini e Montez, è chiuso dai vari Fernando, De Robertis e Maestri. Torna alla squadra del cuore ed è boom: 298 presenze, 285 reti. Un’icona anche della Nazionale turca: una media pazzesca anche con la maglia Luna e Stelle, considerando che la mette 34 volte in 36 apparizioni. Ad Istanbul, Metin è ricoperto d’oro. A 55 anni, la tragedia che gli stronca la vita, in un incidente stradale. La società giallorossa gli dedica il centro sportivo, ma non solo: ogni anno la sua tomba è meta di pellegrinaggio per giocatori e tifosi. Un amore corrisposto, dal momento che proprio la scelta di non ritornare al club che lo lanciò, l’İzmirspor, fu la causa del divorzio dalla moglie: era la squadra della comune città natale degli sposi. Decisivo a ripetizione nei derby contro Fenerbahçe e Beşiktaş, si guadagnò il soprannome taçsız Kral, Re senza corona. Metin è stato spesso raffigurato in pose accattivanti, assiso sul trono come un vero e proprio Sovrano. Dispiace per la triste fine, ma anche per l’esperienza fugace all’ombra del Pellegrino. Dove non abbiamo visto una stella, ma una meteora. Il calcio turco recentemente è stato avvolto dalle polemiche, mentre tutto intorno calano le tenebre. Peccato: lo sport è aggregazione, non speculazione. Meglio quando ci racconta storie come questa: finita di colpo, ma col protagonista felice e contento, come un Re fuori dal tempo. Senza corona, ma col suo scettro.
Dario Romano
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MOZZAFIATO

Metin Oktay, Fernando, Santino Maestri
US PALERMO
Basta un attimo: un semplice click ed è storia. Cinque giocatori in posa, col sorriso a prendere il sopravvento. Sullo sfondo, gli spalti vuoti del nostro teatro dei sogni e quel promontorio da scenario mozzafiato. La stagione da ricordare è d’eccezione: la ’61-’62, quando alla Favorita puoi ammirare le gesta del ‘Palermo miracolo’. Santa Rosalia non la si scomoda: a confezionarlo, l’ottavo posto, il Segretario Totò Vilardo e quell’undici da incorniciare. Le riserve, non stanno a guardare: c’è spazio per tutti, quelli bravi e quelli brutti. Nel senso ‘buono’ del termine: in quel Palermo, abbonda il talento, ma oltre al fioretto compare la clava. Necessaria, per una neopromossa che nella massima serie ci vuol rimanere. Finirà con lo stupire, tra vittorie leggendarie, parate straordinarie ed episodi da raccontare. Si comincia da sinistra, dove Luigi De Robertis fa bella mostra: l’ala giusta per le alte latitudini. Due stagioni in Rosanero, dove assaggia per la prima volta l’ebbrezza della SERIE A. Più di cento presenze nei Galletti baresi, prima del salto in alto dalla cadetteria: giunge in Sicilia e poi in Emilia, con la maglia del Modena. Per lui, un futuro curioso negli States: nato per volare. Fulvio Mosca guarda in alto, verso vette soltanto sperate. Tradisce le attese, le promesse di una carriera che è proprio all’apice. Protagonista della promozione, riduce le presenze ad appena dieci gettoni. ‘Il nuovo Pelé’ si rifarà tra le mura amiche. Il quel di Trieste, oltre all’alabarda, si prende la fascia: di capitano. Il Re, ma senza corona, è il turco Metin Oktay. Un campione, tra mille trucchi e pochi inganni. I numeri col pallone la specialità della casa, ma il campo a Palermo lo vede poco. Un peccato, perché la stella del Galatasaray era un autentico fuoriclasse dentro il rettangolo di gioco e proprio fuori di testa nel quotidiano. In patria, un Sovrano, idolatrato ancora oggi. La sua tragica scomparsa è l’amaro che subentra al dolce ricordo di quel Palermo, sorretto dalle parate di un mostro di nome Carlo. Mattrel si guadagna la Juve e la Nazionale, neutralizzando rigori e conclusioni neanche fosse un extraterrestre. E dire che la schiena fa le bizze, prima che ci si mettesse pure un tragico destino. Carletto, come il turco, è vittima di un incidente stradale fatale. Galeotto fu l’aereo, invece, per Fernando Puglia. Che durante il viaggio alato incontra HH e ne dribbla l’offerta. Helenio non ci sta, lo schernisce e le prende. L’Internazionale è battuta dalla sua rete e poi arrivano le scuse per un gesto irriverente. Il brasiliano è forte: è qui la festa, ma non basta. Perché si vince anche altrove, dove solitamente se le prende. Un bel quattro a due al Comunale e le Zebre espugnate. Che squadrone, quel Palermo, con Tarcisio Burgnich, Bruno Giorgi, Giorgio Sereni, Enzo Benedetti, Alberto Malavasi, Rune Börjesson e Santino Maestri. Il biondo che chiude il quintetto della foto farà meglio al suo ritorno, dopo un breve passaggio alla Sampdoria. Due reti appena e la doppia cifra nella seconda esperienza in maglia rosa. Ma non è più un Palermo da ottavo posto: quello che era passato in panca da Leandro Remondini ad Oscar Montez e, dopo un inizio balbettante ed un prosieguo promettente, ci suonò uno spartito scoppiettante. Musica, per le nostre orecchie e gioia per gli occhi. I sogni son desideri, ma anche i ricordi fan battere forte il cuore. Rosanero, in questo caso, con la foto mozzafiato.
Dario Romano
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IL MONUMENTO

Scolpito nella roccia. Tonino De Bellis è il nostro Burgnich. Un baluardo difensivo d’altri tempi. Quelli che facevano della propria area un territorio di caccia. Segui il talento di turno e gli metti il francobollo che gli resterà incollato per una settimana. Lividi targati De Bellis. Spariranno, ma quando lo affronterai di nuovo, il Palermo, torneranno. 257 presenze e la presenza costante nelle foto d’epoca, esclusa la parentesi veneziana (al suo posto, il futuro Tarcisio nazionale, per una sola stagione). Vai a rinunciare ad uno che ci mette la museruola, ai tanti cani che abbaiano. Provate ad immaginarvi nei suoi panni, contro gli squadroni di allora: spalti gremiti, tifo assordante e la consapevolezza che ogni errore uguale sconfitta. Sputi e provocazioni sussurrate all’orecchio con colpi proibiti assortiti e tanto, tantissimo mestiere. Mi vedrei come un legionario chiuso a testuggine e pronto ad infilare il gladio nei pochi spazi a disposizione: muscoli, elevazione, tempismo ed esperienza le vere e sole armi a disposizione. Una sola telecamera, niente VAR e allora, poi, tutti amici e nemici come prima. Tutto molto scorretto? Lo sono molto di più le sceneggiate dei Rivaldo e Ronaldo, la spintarella e tutti giù per terra. Era questo, il calcio di Tonino. Quello di una volta, che ti faceva vincere con l’etichetta del catenaccio e contropiede. Altro che tiki taka o guardiolismo. Indossi una maglia Rosanero, con un numero che non hai scelto, senza nome e cognome e ne fai una seconda pelle. Onori quei colori senza scritte alcune, che tra qualche anno vedremo pure lampeggiare. Ma, per De Bellis, il Palermo è stato soprattutto Palermo. Ne ha fatto la sua casa, quando poteva bastare anche un arrivederci e grazie. E a brillare restano le gesta e foto come questa. Un monumento. Scolpito nella roccia.
Dario Romano
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INDISSOLUBILE

Un legame stretto, di quelli che non si sciolgono. Nativo di Taranto, ma palermitano d’adozione, Tonino De Bellis rappresenta la colonna, la roccia dei Rosanero. Il monumento (vi rimando all’articolo a lui già dedicato e così intitolato) arriva nel 1957 e fino al 1961 disputa ben 133 gare. Difensore arcigno, ottimo in marcatura, porta ancora sulle gambe i segni delle botte, date e ricevute. Dopo tre anni al Venezia, torna al Palermo nel ’64, per altri 124 incontri di campionato: contiamo 257 apparizioni in totale. Una sola rete a referto, ma in COPPA ITALIA. Era difficile vederlo in avanti, all’avventura. La sua giungla, dal cerchio di centrocampo in giù. Anche come allenatore, ha diviso il suo legame con la società, ma in due spezzoni. Il primo nel 1975-1976, subentrando a Benigno De Grandi. Si dimetterà al termine del campionato, ma sarà ancora in sella per quello seguente. Il secondo nel 1995-1996, l’anno del Palermo dei picciotti, quando affiancò Ignazio Arcoleo, sprovvisto di patentino. E Tonino, da Palermo, non è più andato via.
Dario Romano
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UNA VITA INTERA

Dedicata al calcio.
Quarant’anni, dal debutto da calciatore alla carriera da allenatore. Giorgio Sereni parte dalla piccola Luzzara, squadretta della città che gli ha dato i natali, e si afferma nella Reggiana. Il Palermo, appena retrocesso, nel ’57 lo preleva dalla SERIE C e dopo una stagione d’assaggio ne fa una portata. Un campionato intero da protagonista, con la ciliegina che vale promozione e SERIE A. Sei tornei, tre in massima serie, per un totale di 167 apparizioni e due reti. Con Enzo Benedetti formò una coppia di centrali ben collaudata e affidabile. Perse il posto a favore di Tarcisio Burgnich, in seguito tra i più grandi di sempre nel ruolo. La colonna, tuttavia, si fa architrave nel Padova, prima di appendere le scarpette al chiodo e sedersi a lungo in panchina. Veneto, Emilia, Toscana, Abruzzo, Campania, Puglia, Calabria: un baffone da veterano, per i campi dove ne avrà visto di tutti i colori. Giallorossi per l’unico vero botto, nel ’78, con la terza e ultima salita, nel calcio che conta, per il Catanzaro. E si ricomincia, con il Rimini. Il Mister ancora non lo sa e forse non gli importa: la categoria d’eccellenza, per lui, vale solo una maglia Rosanero, quella splendida che indossa in questa foto, fiero e…sereno. Giorgio ci ha lasciato dieci anni fa, proprio quando suo figlio Matteo stava per chiudere una carriera ben diversa. Trascorsa in porta, senza scendere sotto la Capitale e con una capatina all’Ipswich. Di panchina, neanche a parlarne.
Dario Romano
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CARLETTO

Uno dei più grandi portieri, se non il più grande in assoluto, della storia Rosanero. Fu proprio la trattativa che vide approdare alla Juventus un altro grande interprete del ruolo in maglia rosa, la Zanzara Roberto Anzolin, a far sbarcare Carlo Mattrel a Palermo. Nato a Torino e cresciuto proprio con i Bianconeri, vantava tre SCUDETTI e due COPPE ITALIA al momento del prestito al ‘Palermo miracolo’. Non perderà una gara della stagione 1961-1962, con 34 presenze, prima di rientrare alla base. Mattrel resterà imbattuto per cinque partite consecutive, un dato che costituisce un record difficilmente eguagliabile, riguardo la massima serie, per il club siciliano. Rete inviolata contro Udinese, Vicenza, Torino, Bologna e SPAL (ben due i rigori neutralizzati contro i ferraresi), con una perla non incastonata a San Siro, dove para due tiri dagli undici metri all’Inter, anche se, purtroppo, uno non lo trattiene. Era la sua specialità: una stagione ‘monstre’, visto che ne intercetta altri otto su un totale di dieci. Tornerà alla Juve, la sua casa madre, come riserva dello stesso Anzolin. Grande a Torino e grandissimo a Palermo, dove conquistò un posto per la spedizione azzurra ai mondiali del 1962 in Cile. Giocherà da titolare la ‘Battaglia di Santiago’, persa 2-0 contro i padroni di casa. Ma quella non fu una partita di calcio e fa parte di un’altra storia. Carletto chiuse la carriera a Ferrara, nel 1968. Ci ha lasciato a soli trentanove anni. Un incidente stradale insolito, la causa. Si schiantò, a bordo della sua auto, contro una betulla. La macchina rimase intatta.
Dario Romano
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POKER D’ASSI

No, due di picche.
Una stagione da incubo, culminata con la retrocessione sancita dall’ultimo posto in classifica. Le premesse per la stagione 1962-1963 erano ben altre, soprattutto guardando questa foto. Da sinistra, il brasiliano Fernando, lo svedese Rune Börjesson, l’altro brasiliano Faustinho e l’altro svedese Lennart Skoglund. Riguardo quest’ultimo, ne tratteremo doverosamente in uno speciale a lui esclusivamente dedicato. Del quartetto che vediamo sopra in posa, Nacka era probabilmente l’unico accreditato delle stimmate del fuoriclasse, ma a Palermo fu soltanto ‘fuori’ dall’undici titolare. Mentre il carioca José Ferdinando Puglia, meglio noto come Fernando, merita anch’esso un suo focus, qui appena abbozzato. Cresciuto nel Palmeiras (la ex Palestra Italia), centrocampista offensivo schierabile anche come seconda punta (in Brasile, con José Altafini, formò una coppia di ‘doppio’ centravanti), arriva ad indossare la maglia Rosanero nel 1961, dopo due ottime stagioni in Portogallo (57 presenze e 58 reti con lo Sporting Club di Lisbona). Celebre l’aneddoto che lo vede incontrare, sull’aereo che lo porta in Sicilia, il mitico Helenio Herrera, tecnico della Grande Inter, il quale gli propone un periodo di prova in maglia nerazzurra. Fernando rifiuta, volendo mantenere la parola data (altri tempi). Herrera se la lega al dito e non lesina critiche al giocatore per le sue prestazioni, ma anche lo stesso giocatore non dimentica. E così, il 04/03/1962 realizza una rete decisiva proprio contro l’Inter, che costerà lo SCUDETTO ai meneghini. Non pago, preleva il pallone dal fondo della rete e lo porta fino alla panchina del Mago. Un siparietto che si chiuderà a tarallucci e vino negli spogliatoi, con le scuse in salsa sudamericana. Due le stagioni di permanenza in maglia rosa, caratterizzate da 62 presenze e 13 reti. Dopo la retrocessione del 1963, si trasferirà al Bari, per chiudere in patria al Bangu. Soltanto tre, invece, le apparizioni ed una marcatura a referto con la rappresentativa Verde Ouro. José finirà tristemente in miseria, dilapidando i risparmi: ci ha lasciato recentemente, all’età di 78 anni. Passiamo a Börjesson, che arriva in prestito dalla Juve. Ex capocannoniere del campionato svedese in due occasioni, risulta meno prolifico, poiché schierato in una posizione più arretrata. Delle dieci marcature realizzate in due stagioni, una è proprio contro i Bianconeri. Per Fausto Pinto da Silva, in arte Faustinho, il calcio è invece solo una parentesi: rientrato in patria, si darà all’edilizia. Riguardo Skoglund, per il biondo svedese non si trattava del classico canto del cigno: dopo l’esperienza sicula, il piccoletto tornò a casa e grande. Fu di nuovo leggenda.
Dario Romano
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DAL BRASILE CON AMORE

Il mio nome è José Ferdinando Puglia e sono stato un calciatore del Palermo. Nella mia patria, il Brasile, mi chiamavano soltanto Puglia. Alla ‘Favorita’, semplicemente, Fernando. La mia carriera è iniziata nel Palmeiras di São Paulo, il club prima conosciuto come Palestra Italia, ma è in Portogallo che avvenne la mia definitiva consacrazione: non poteva essere altrimenti, con 58 reti in 57 presenze allo Sporting Club di Lisbona. Attaccante!? Non proprio: piuttosto, una mezzala abile anche in copertura. È questo il ruolo col quale stacco il biglietto per la città più brasiliana d’Italia: Palermo. Colori, sapori, il sole, il mare e soprattutto le palme dappertutto. Sull’aereo con destinazione Paradiso, ecco il tentatore: Helenio Herrera, che fece Grande l’Inter, mi vuole in prova. A quei tempi non c’erano mica i procuratori: a decidere del nostro destino erano le società, ma a volte bastava una stretta di mano o la parola data. Il mio dado era già tratto, le altre parole le lasciai al ‘Mago’ ed erano al veleno. Più velenoso, tuttavia, il mio ‘golazo’, che gli fece rimandare la festa per lo SCUDETTO. Lo ricorderanno tutti i presenti: gli portai il pallone avvelenato fino in panchina. Apriti cielo: prima le scuse, poi una pacca sulla spalla. Quel giorno, grandi Rosanero e piccoli Nerazzurri. Quell’anno, soprattutto, un grandissimo Fernando: ben dieci reti in SERIE A. Era un altro calcio e raggiungere la doppia cifra, un miraggio. E la mitica maglia Verdeouro!? L’ho indossata soltanto tre volte: pur sempre una soddisfazione, ma poco importa. Perché la mia vera Nazionale aveva pure il colore bianco, come nella foto che mi immortala orgoglioso. E soprattutto, quel che più conta, ‘mas que diabo’: quella combinazione unica conosciuta in tutto il mondo: amore imperituro e fiero, di esser stato Rosanero!
Ovviamente il testo è soltanto immaginario: un escamotage. Fernando non è più tra noi, ma con le parole si può dare vita a tutto. Anche ad una splendida foto.
Dario Romano
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IL ROTTO DELLA CUFFIA

Back row L-R: Troja, Ferrero, Gagliardelli, Costantini, Cipollato, Giubertoni.
Front row L-R: Taibi, Pagano, Fogar, Giorgi, Moschen.
SERIE B
15st
Un campionato da brividi, per un Palermo che si regge sulle reti di Tanino Troja e che si salva in extremis. Infatti, il club guidato dal Presidente Luigi Gioia e dall’allenatore Carlo Facchini, parte con due sconfitte di misura rimediate nella doppia trasferta contro Livorno e Modena, poi arriva la scossa. Genoa e Monza cadono alla Favorita, un pari esterno al cospetto del Verona e si espugna il campo del Padova. La conferma arriva con l’affermazione casalinga contro la Reggiana, un pareggio nel derby col Messina e si torna corsari battendo il Pisa a domicilio. Cinque vittorie e due pareggi in sette gare. I Rosanero fanno la voce grossa. Ma è un fuoco di paglia, interrotto da una decisiva sterilità offensiva che porta ad un digiuno di realizzazioni perdurante per ben quattro gare consecutive. Sarà così per quasi tutto il girone di ritorno. Dove il fortino cede più volte nel finale e ci si salva per il rotto della cuffia. Retrocedono Trani, Monza e Pro Patria, col Palermo salvo soltanto per un punto a quota 34, in condominio con Reggiana e Pisa. Venezia, Lecco e Mantova staccano il biglietto per l’agognata promozione. Da segnalare le dodici marcature del Tanino profeta in patria e le 38 presenze di Mario Giubertoni, colonna difensiva per sei stagioni, prima del meritato salto di qualità in nerazzurro.
Dario Romano
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MINIMO SCARTO

Back row L-R: Bercellino, Nova, Benetti, Landoni, Giubertoni, Landri.
Front row L-R: Lancini, De Bellis, Perrucconi, Ferretti, Costantini.
Alcune fonti riportano il cognome Perucconi, come nel nome: Gilberto anziché Gilbert.
SERIE B
1st
Di Bella. Come Carmelo, l’allenatore che nel ’68 fa la rivoluzione. Senza tanto clamore: per vincere, basta non prenderle e fare un golletto in più. Difesa coriacea, attacco pungente: col minimo scarto, si salta in alto ed è SERIE A. Il Palermo, che ha in Giubertoni e Lancini i leader indiscussi, aggiunge un tassello incastonato da un vero e proprio martello. Dal Taranto, arriva un mediano vecchio stampo: non ha ancora lo sguardo da duro che incuterà terrore ad alte latitudini, ma fa già sentire la sua presenza in campo. Benetti ha una sorella gemella: lui è Romeo, lei Giulietta. La famiglia intera è quasi come una squadra: compresi i genitori, sono in dieci. Il biondo farà da linea di demarcazione: quando il pallone va dalle sue parti, si passa spesso dalla fase difensiva a quella offensiva. Perché, oltre che distruggere, il virgulto sa pure costruire: il suo furore agonistico si traduce nelle reti di Bercellino e Perrucconi, cannonieri con nove realizzazioni a testa. Risultano sufficienti, guardando l’esito delle partite. Poche reti subite (migliore difesa del campionato), appena sei sconfitte, primo posto assicurato. 52 punti, con quattro di vantaggio sulla coppia Verona e Pisa, le altre promosse. A spiccare, la vittoria nel derby in trasferta con il Catania del 26/11, targata Nova e Perrucconi, e l’imbattibilità a più riprese di un team che concede poco allo spettacolo, badando soprattutto al sodo. Il 3-0 al Novara ed il pirotecnico 3-3 col Monza, nel doppio turno casalingo di Marzo, le rare eccezioni concesse da un meccanismo puntuale come un orologio. Per tutto il resto, un minimo scarto può bastare. Romeo? Giocatore di altra categoria: nonostante la promozione, farà l’amore con un’altra Signora. Bianconera.
Dario Romano
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CUORI ROSANERO

Back row L-R: Giubertoni, Landri, Ferrari, Reja, Landoni, Troja.
Front row L-R: De Bellis, Lancini, Pellizzaro, Costantini, Geotti.
SERIE A
11st
Tanino Troja punta centrale e, sugli esterni, Sergio Pellizzaro ed Enzo Ferrari. Edoardo Reja accende la luce, affiancato da Carlo Lancini e Graziano Landoni. Mario Giubertoni e Franco Landri la diga centrale. A coprire le falle, Antonio Maggioni e Beppe Furino. Schierati ai lati, ma all’antica: senza fluidifica. Il monumento Tonino De Bellis che risponde ancora presente, soprattutto quando occorre. In porta, Giovanni Ferretti o Idilio Cei (Gianvito Geotti nella foto). In panca, Giorgio Costantini, Ido Sgrazzutti, Silvino Bercellino, Gilbert Perrucconi. Agli ordini di Carmelo Di Bella, una formazione che profuma d’amore. Perché c’è tanto Palermo, c’è tanto cuore Rosanero, per la stagione 1968-1969. La massima serie mancava da cinque anni, ma ci si siede a tavola senza tanti affanni. Due pari nelle ultime cinque giornate: i tre punti dalla zona retrocessione non traggano in inganno. L’undicesimo posto finale ci può stare. Le grandi cambiano colore e regione: Fiorentina campione, Cagliari fa le prove. Non le solite note, quindi: è ribaltone. Tre schiaffi in Sandegna, targati Riva e Boninsegna, poi reti bianche a Torino bianconera e al debutto in casa il pari di Pellizzaro su rigore, contro una Beneamata in vantaggio con Mariolino Corso, ‘foglia morta‘ passato recentemente a memoria imperitura. Segnali confortanti: ce la si gioca. Anche al ritorno Juve e Inter non la spuntano, ma è l’attacco un po’ spuntato. Troppi pareggi, poche vittorie: parecchie delle reti realizzate dispensate quando ormai la gara è aggiudicata. O disgraziata, cornuta e mazziata. La doppietta di Troja contro il Napoli non serve: finisce con un elicottero che atterra sul manto erboso della Favorita. C’è un arbitro da salvare, dopo che è successo l’irreparabile: il gesto dell’ombrello di Altafini scatena l’inferno e comincia a piovere. Di tutto, di più: la giacchetta nera Sbardella si salva per il rotto della cuffia. La fa franca anche José, denunciato da una tifosa. Si registra l’ultimo match dal sapore internazionale: l’Inter di Bratislava si aggiudica il match casalingo con tre reti di vantaggio e limita i danni in Sicilia. Il ritorno in Europa, il vero debutto, poiché conta per davvero, è bel al di là da venire. COPPA UEFA, non MITROPA. Palermo-Anorthosis Famagosta, annata DOC 2005. Trentasette anni dopo, una nuova generazione a godersi il vero splendore. Per i veri cuori Rosanero, poco importa: basta vederla in campo, quella maglia. Anche se strisciata, il battito resta forte, sempre e comunque.
Dario Romano
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VECCHIO STAMPO

Lo spauracchio è rappresentato da colui che verrà ricordato come ‘Il profeta del gol’. Oppure, l’‘Olandese Volante’: all’anagrafe, Hendrik Johannes Cruijff. Già da solo, è tanta roba. Ma anche il resto dell’AJAX è tanta manna. La paura fa novanta, ma poco importa. Siamo arrivati fin qui e ce la giochiamo. E poi, il satanasso tocca a Lele. Scelta coraggiosa: mal che vada, raddoppio in marcatura. Tanto quello svaria su tutto il fronte d’attacco e non solo: prima o poi, me lo becco. Non aveva fatto i conti con il solo straniero di quel complesso di marca tutta olandese. A spezzare i sogni di Mario Giubertoni, l’intervento di Horst Blankenburg. Si getta la spugna, con la pugna ancora in bilico. Cruijff ci prova pure con la mano, a metterla dentro: è il vizio dei più grandi. Ma è in serata di grazia, come Diego al sole dell’Azteca: la Beneamata crolla e per Johan è doppietta. Che disdetta, per il numero 5 nerazzurro. Lasciare il campo per infortunio, proprio nel giorno più importante della carriera. Che resta comunque di spessore e ci mancherebbe altro. Un giocatore che si è tolto le sue soddisfazioni, in un ruolo tra i più difficili in assoluto. Un francobollo, questo difensore vecchio stampo. Forgiato nel Palermo, che lo preleva nel ’64 dalla piccola Moglia. Il debutto in cadetteria non è il passo più lungo della gamba: Giubertoni è da subito titolare fisso. Ha indossato la maglia Rosanero in tante varianti: dalle strisce a quella a quarti, fino alla classica. Le battaglie, di tutti i colori, fino all’agognata promozione in massima serie. Mario guarda lontano, in questa foto scattata alla Favorita. Ne ha ben donde, visto il seguito alle porte. A Milano, ci finisce con Sergio Pellizzaro: un doppio colpo sancito dal botto chiamato SCUDETTO, già al primo anno. Al Palermo si ferma sfiorando le duecento apparizioni, all’Inter saranno poco più di 150, condite dalle magiche serate in coppa. A rovinare la festa, una botta indigesta ed un’avversaria troppo forte. Burgnich, Facchetti, Jair, Mazzola: non era più la Grande Inter, ma se ne respirava ancora l’aria. In area, invece, non si passa. Con quel difensore vecchio stampo, aggiunto per giunta a quei due colossi inamovibili. A meno che non ci si trovi di fronte ad un Cruijff in stato di grazia. Nel giorno più disgraziato.
Dario Romano
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IL GESTO DELL’OMBRELLO

‘Se c’è la folla, prima o poi c’è la follia.’
E la folla c’è, alla Favorita, il 16/03/1969, per il Palermo-Napoli più folle di sempre. Voltaire diceva che ‘Nessun fiocco di neve, in una valanga, si è mai sentito responsabile’. E ne contiamo almeno due, quel giorno: l’arbitro Sbardella e José Altafini. All’intervallo (1-1, per le reti di Barison e Troja), la giacchetta nera viene affrontata a muso durissimo da Ferlaino nello spogliatoio: per il neo Presidente partenopeo, l’arbitro sarebbe condizionato dal pubblico di casa. Ed è così che la via per l’Inferno viene lastricata dalle ‘buone’ intenzioni del Moggi d’antan. Il raddoppio di Tanino al futuro monumento Dino Zoff, risveglia dal torpore Sbardella (che fa anche rima con Gonella, per tacere di Adam Kadmon). Prima nega un rigore ai Rosanero, per un tiro di Bercellino respinto col braccio da Juliano, e poi ne concede uno dubbio agli ospiti. José trasforma dal dischetto, ed ecco il gesto dell’ombrello (coperto, non proprio del tutto, dallo stesso Juliano che lo abbraccia). Anche anni dopo, il brasiliano ‘Mazola’ (per la somiglianza col grande Valentino, che nel Grande Torino si portava la mano sul gomito per il rimbocco della manica e partiva la carica) negherà tutto. La foto, ci racconta un’altra storia, che si fa davvero brutta. La rete del definitivo 3-2 di Micelli scoperchia definitivamente il vaso di Pandora. Il fallo in area sul palermitano (in tutti i sensi) Troja al novantesimo, potrebbe richiuderlo, macché. Sbardella fischia la fine ed inizia la caccia all’uomo nero. Report: invasione di campo, elicottero per l’arbitro, giubbotto antiproiettile per Ferlaino, condotto su un cellulare dei Carabinieri, sedici arresti ed in seguito il tribunale. Che sancisce un 2–0 a tavolino per il Napoli e due giornate di squalifica del campo. Le richieste dell’accusa superavano i trent’anni di carcere: venti per l’autore del gestaccio (addirittura una tifosa lo denunciò privatamente per offese). Finì a tarallucci e vino: dall’ombrello, al paracadute.
Dario Romano
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FUOCO DI PAGLIA

Back row L-R: Giubertoni, Reja, Ferrari, Troja, Bercellino, Landri.
Front row L-R: Sgrazzutti, Costantini, Causio, Lancini, Ferretti.
SERIE A
15th / retrocesso in SERIE B
L’avvio è da tregenda. Al Comunale, contro la Juve, la rete di Troja dopo appena quattro minuti. Soltanto un’illusione: il crucco Helmut Haller pareggia all’undicesimo, ma il Palermo tiene il campo. Poi ancora lui, a ripresa ben inoltrata. Nel finale, Lamberto Leonardi e l’ex Beppe Furino calano il poker. Il calendario non dà una mano: alla Favorita, per la seconda giornata, cala la corazzata nerazzurra. Stavolta è Franco Causio ad illudere: il rigore trasformato da Mario Bertini a due passi dall’intervallo, è un segnale sconfortante. Ci pensa Facchetti, Giacinto Magno, a togliere le speranze. Il primo punto arriva alla quinta: clamoroso, sul neutro del Cibali ed al cospetto del Diavolo: porte inviolate. Si racimola anche coi Granata, in una trasferta sfortunata: l’autorete di Angelo Cereser, all’ottavo minuto, dura fino al decreto sancito da un fischietto indigesto. Dagli undici metri, Fabrizio Poletti impatta a venti dalla fine. Si ha la sensazione che i Rosanero non siano proprio da buttare: partono bene, tengono botta, anche di fronte allo squadrone di turno. Ma basta un episodio sfavorevole e ci si scioglie. E quella che sembrerebbe una svolta, non si rivela altro che un fuoco di paglia. Il team di Carmelo Di Bella asfalta la Sampdoria e poi scrive un po’ di storia. L’autore per eccellenza della stagione, si chiama Gigi Riva, che a suon di reti sta ribaltando le gerarchie del campionato. Il complesso guidato da Manlio Scopigno, l’allenatore ‘Filosofo’, è imbattuto. Ma all’ombra del Pellegrino, oltre a ‘Rombo di Tuono’, bisogna fare i conti con ‘il bel saraceno’. A Cagliari si vive una favola, ma a Palermo c’è spazio per la poesia: targata Tanino Troja. Quarantesimo: cross di Sergio Pellizzaro e colpo di testa in tuffo del profeta in patria. Sono attimi, gesti tecnici scaturiti da doti fisiche non comuni ed intelligenza per grazia ricevuta. La Favorita è una bolgia: da terra di conquista, a fortino. All’Olimpico, il solito vantaggio sfumato con la Roma, poi il pari ad occhiali col Napoli, in un derby del Sud avvelenato dal recente passato. Si chiude l’andata con la sconfitta di Firenze, con Silvino Bercellino che realizza il goal della bandiera solo allo scadere. Si riparte con la Juve, ma non c’è storia. Si sogna a San Siro, ma Bonimba e ancora Bertini colpiscono duro in un finale amaro. Il concetto è chiaro: la salvezza, passa dalle gare in casa. Tre vittorie e tre pari non bastano, poiché altrove si ottiene soltanto un punto al San Paolo. Palermo e Brescia finiscono staccate di quattro lunghezze dalla Samp, salva al quartultimo posto. Fanalino di coda, i Galletti baresi. Questa, la massima serie che prelude a Mexico ’70, alla partita del secolo. L’Italia pedatoria che s’inchina al Cagliari di Riva, la Nazionale che cede in finale, dopo averci fatto sognare. Un po’ come veder salvare il Palermo: che ha battuto soltanto qualche colpo. Ma il fuoco di paglia, nel calcio, non basta.
Dario Romano
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L’ULTIMO GATTOPARDO

Il decennio che lascia il segno: gli anni ’70, tutti d’un fiato. Da lasciarci a bocca aperta. Semplicemente, l’era Barbera. La morale, sempre quella: gigantesca, con tanto di pugno allo stomaco. Altro che farfalle: il senso di profondo rispetto che ti assale e ti fa provare amore per il Presidentissimo che non hai mai conosciuto: è un sentimento ricambiato. Ci ha portato a lezione, condotti con una mano nella mano e con l’altra nel cuore. Cuore Rosanero, autentico e tremendamente sincero. Renzo valorizzò giovani siciliani come Trapani, Arcoleo, Troja, Vullo, Borsellino ed essendo appassionato di altri sport fece del Palermo una polisportiva, come l’illustre e nobile, in tutti i sensi, Principe Raimondo Lanza di Trabia. Un personaggio caratterizzato da uno stile d’altri tempi e connotato dall’amore verso i colori del club, specchio riflesso di una città intera. Il tutto a sue spese, andando anche oltre le proprie possibilità. Come la squadra stessa, promossa e retrocessa, ma capace di raggiungere due finali di COPPA ITALIA con l’etichetta di cadetta. Quella coppa maledetta. Scippata e rubata oppure rubata o scippata poco importa. Gettata comunque al vento, perché a volte il cuore non riesce ad andare oltre l’ostacolo. L’ultimo dei Gattopardi ci ha raccontato, con le lacrime agli occhi, che cosa non avrebbe mai dimenticato: il pianto dei tifosi che rientrano moralmente a pezzi, sul traghetto della speranza e dell’amarezza. Dario Mirri ha sempre dichiarato che al primo posto, nel Palermo di Hera Hora, avrebbero contato soprattutto le certezze morali. Abbiamo visto di tutto, salendo fino in paradiso e scendendo nel baratro dell’inferno. Adesso, ci tocca una sorta di purgatorio, ma con base solide come mai dalle nostre parti. Dove vincere non sarà l’unica cosa che conta. Buon sangue non mente, ovviamente. Ma quanto ci manchi, Presidente.
Dario Romano
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A PICCOLI PASSI

Back row L-R: Vanello, Troja, Bercellino, Reja, Ferretti, Ferrari.
Front row L-R: Bertuolo, Sgrazzutti, Alario, De Bellis, Lancini.
SERIE B
13st
L’avvio, è da tregenda. Si parte da Massa, in Toscana, con questa formazione che vediamo schierata allo Stadio degli Oliveti. Una rete per parte, un pari e patta come alla Favorita col Monza. Inizia così, per il Palermo, il campionato di SERIE B edizione 1970-1971. Che da Ottobre non lascia adito a speranze: si rischia grosso, con un filotto senza vittorie che perdura fino alla nona giornata. Il perentorio 4-0 ai Galletti scaccia parzialmente fantasmi e streghe. Non si vince e non si perde, si segna poco ma si subisce altrettanto. La sconfitta esterna col Cesena è parzialmente cancellata la domenica successiva. Un’affermazione di misura contro l’Arezzo, che è soltanto la seconda del girone d’andata. Si cade ancora in casa, al cospetto della Reggina, sempre a causa di un golletto: di troppo, anche per un gentiluomo come Renzo Barbera. Che fa la scelta giusta, per il presente e per il futuro: anche immediato. In panca, salta il catanese Carmelo Di Bella e subentra il vice: Benigno ‘Ninetto’ De Grandi. E la squadra si trasforma: si espugna la Puglia. Col Taranto, il giusto giro di boa. Si riparte battendo la Massese e trionfando in Brianza: due a zero al Monza. I Rosanero, hanno imparato a vincere, pur lontano dalle mura amiche. Un fuoco di paglia, ma a piccoli passi poco male, perché si risale. Senza far male, ma uscendone anche indenne: il pari arriva per ben sette volte, con tre reti realizzate e altrettante subite. Lo spettacolo latita: a non mancare, il segno della X, almeno fino alla disfatta rimediata in Puglia, stavolta non amica. La debacle col Bari è cruciale: il Palermo è punto nell’orgoglio e gioca un altro calcio. Tre successi e quattro pari lo mettono al sicuro dalla zona pericolo, ma soprattutto infondono nei rosa maggiore fiducia. La Reggina si conferma bestia nera alla penultima, ma quando i giochi sono già fatti. L’ennesimo pareggio contro il Taranto è il commiato al campionato di una lumaca che De Grandi farà tornare aquila. Il tecnico è un ex: dal ’51 al ’57, con intermezzo lampo alla Sampdoria. Un mediano vecchio stampo, abile in copertura ma dal piede educato. Non mancano i suoi assist, come il vizietto del goal. Si prende due soprannomi: nel bene e nel male, vuol dire che hai fatto rumore. Nel suo caso, per ragioni lusinghiere. Aldo Boffi, celebre attaccante dei Rossoneri pre guerra, lo chiamava Fiordaliso: fuori dal terreno di gioco, Ninetto sprizzava eleganza. Durante la sua militanza al Milan, per Gianni Brera era ‘il quarto svedese’: dopo il Gre-No-Li, c’era De Grandi. Il Palermo lo preleva proprio dai meneghini e lo promuove come primo allenatore, colto dalla disperazione. Una rivelazione: mattone dopo mattone, la luce e fuori dal burrone. Fino al colpo grosso. Le premesse non mancavano: ventuno pareggi, un’infinità, ma appena nove sconfitte, non tante come quelle delle tre promosse. Mantova, Atalanta e Catanzaro sanno soprattutto pungere. Un dettaglio da aggiungere nel bagaglio: ci vuole un mostro. Ci sarebbe già: si chiama Enzo. Ci farà fare un bel giro, a bordo della sua Ferrari. Dai piccoli passi al salto in alto: l’ultimo, fino al nuovo millennio.
Dario Romano
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FORMAGGINO MIO

‘Mio!’ e a forza di urlare, ecco il soprannome. Parte col Mantova, poi due stagioni con l’Inter e l’etichetta del pararigori, appresa anche dall’altra parte della barricata. Perché lui, dagli undici metri, sapeva anche calciare. Sergio Girardi disputa quattro stagioni con il Palermo (119 presenze, 105 reti subite). La tradizione Rosanero dei numeri uno vanta anche lui come assoluto protagonista. Chi l’ha visto all’opera, ne è rimasto folgorato: per il rendimento, la presenza, quella doppia mandata che rassicura tutto un reparto e ti regala qualche punto in più. L’ultima promozione prima dell’era Zamparini (1971-1972), vede proprio il portiere veneto tra i pali. Ne otterrà un’altra con il Genoa e farà di Marassi la sua casa (182 gare in sei anni con il Grifone). Infine, il ritorno al Mantova ed i guantoni appesi al chiodo in quel di Ravenna. Nel mezzo, l’onta maledetta: finisce in manette, ma verrà in seguito scagionato, per lo scandalo del Totonero. Nero di rabbia, Sergio, che resta anche uno dei ‘Ragni neri’. Come Lev Jašin, l’aracnide volante per eccellenza. Come Fabio Cudicini. E poi, c’è lui. Ma soltanto per il completino. Macchiato da quel rosa, che proprio non guasta.
Dario Romano
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CHILENA SARACENA

Arrigo Sacchi ha sempre sostenuto che il goal su rovesciata non lo ha mai entusiasmato, poiché, in fondo, da un errore macchiato. In sintesi, l’attaccante è costretto al gesto acrobatico dal suo infelice posizionamento: di fatto, col corpo troppo avanti rispetto alla traiettoria del cross. Oppure a sbagliare è stato chi ha effettuato la sciabolata alla Piccinini: arretrata rispetto al posizionamento dell’attaccante. Lui ha sempre odiato l’istinto: nel suo 4-4-2 la fantasia non era contemplata. Chissà chi l’ha portato in finale a USA ’94: i suoi schemi o la fantasia al potere? Diciamo Roberto Baggio, punto.
Il 07/11/1971 Tanino Troja non si è curato di realizzare il goal perfetto. Sblocca il punteggio di Palermo-Genoa al 32’ (2-0 il finale, la chiude Sandro Vanello al 67’) alla Favorita con il gesto tecnico e acrobatico che chi ama il calcio di più adora. Vuoi mettere? E lui l’ha messa, eccome. Il bel Saraceno la mette all’incrocio battendo il portiere Antonio Lonardi dei Grifoni e ricordandoci che il calcio è soprattutto poesia. E, come i versi che non ci scorderemo mai, certi momenti rimangono scolpiti nella nostra memoria, per sempre. Io ci ho messo soltanto il colore: per farlo sembrare più vivo. Ma avrei preferito essere lui, quel giorno: ci ha messo l’istinto killer dell’attaccante di razza. Forte di testa, la forza nella testa. Una rete del genere da profeta in patria: questa è vita.
Dario Romano
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ALLE FALDE DEL PELLEGRINO

Anche gli Dei s’inchinano, al cospetto degli umani. Cui l’Olimpo non è precluso: quello del calcio, è riservato ai fuoriclasse. Ma le porte a tutti sono aperte. Basta saperci fare e quel coraggio che non guasta: per provare. Il boato a certificare che ci sei riuscito: stai toccando il cielo con un dito e non sei mica il solo. Con te, tutto un popolo: di fede Rosanero. ‘Il bel saraceno’ è palermitano, si chiama Gaetano ma per gli amici è semplicemente Tanino. Per i tifosi, è Troja: il più forte che ci sia. Nasce a Resuttana e nella Faldese si segnala: un piccolo club che dimora proprio alle falde del Pellegrino. C’è anche dell’altro, ma non è ancora tempo. Il virgulto impazza in PROMOZIONE e si guadagna l’occasione: un biglietto di andata e ritorno per e da Paternò. Una sorta di esame superato a pieni voti: alle falde dell’Etna, la solfa non cambia. Anche in SERIE D, il ragazzo dalla carnagione scura si prende la scena e guadagna il ritorno a casa. Stavolta, il promontorio più bello del mondo se lo godrà da protagonista e da professionista: Troja, è felice come una pasqua. Il debutto con il Palermo è col botto: doppietta alla Favorita alle spese del Trani. Non male, per un debuttante, lanciato col dovuto incoraggiamento dall’allenatore del momento: l’ungherese László Székely. Scorre il Danubio, sulla panca dei rosa, partiti forte nel campionato cadetto iniziato nel Settembre del ’64. Poi, il freno a amano e l’avvicendamento col ritorno di Cesto, per finire con Carlo. Facchini traghetta il Palermo, già stazionato all’undicesimo posto. La stagione da incorniciare per Giorgio Tinazzi, che supera la doppia cifra, mentre Troja la sfiora. Buona la prima, per la punta, che si erge a profeta in patria, tenendo botta in un torneo da tregenda. Dodici marcature e la salvezza per il rotto della cuffia. La vera notizia è che bisogna fare cassa e per Tanino, è pronta la valigia: destinazione, Brescia. La prima volta, lontano dalla sua terra, nella nebbia lombarda. Con la Leonessa, non si ingrana: per la prima vittoria, bisogna aspettare fino alla decima giornata. La doppietta dell’attaccante è una certifica: per Tanino, l’ulteriore gradino non è di troppo. La massima serie presenta il conto alla seconda stagione, ma non per l’attaccante: agli ordini di Azeglio Vicini, il Brescia arranca, ma non Troja, che fa il suo. È il cannoniere di una squadra che saluta la SERIE A, ma non l’accompagna nella mesta discesa. La buona novella è il Palermo di Carmelo Di Bella, il catanese artefice di una promozione inaspettata. Un’occasione troppo ghiotta: Tanino è il tassello giusto, motivato e ben collaudato. Sembra una favola, ma c’è anche la leggenda. L’ennesima doppietta, stavolta, non basta: Palermo-Napoli si chiude con un il gesto dell’ombrello di un indemoniato Altafini e con un elicottero atterrato addirittura in campo. Si disputa anche la COPPA MITROPA, la seconda e ultima partecipazione ad un torneo europeo, prima delle gioie del nuovo millennio. Ma il bello, sta per arrivare. Non per il Palermo, che ripiomba nel baratro. La stagione che incorona il Cagliari campione, ci vede infatti scivolare: mentre Tanino vola, da par suo. Due sole sconfitte per i sardi: contro l’Inter e alle falde: sempre del Pellegrino. Cross di Sergio Pellizzaro e colpo di testa in tuffo: Gigi Riva che s’inchina, la curva che esulta a squarciagola e Tanino è lassù, proprio a toccare il cielo con un dito. Non è l’ultimo gesto acrobatico: contro il Genoa, un’altra perla nello stesso teatro. Ed ecco la ‘chilena saracena’, dal sottoscritto colorata e narrata. Per il Palermo di Renzo Barbera e ‘Ninetto’ De Grandi, l’ultima risalita. L’ascensore si dirige verso il basso e Tanino saluta: destinazione Campania. Napoli, il Vesuvio. Non è proprio la stessa cosa, per un giocatore che ormai è più che un tifoso. Bollato come un bidone, l’attaccante scende di due categorie, fino in Puglia. Una decina di reti con i Galletti e l’esperienza inusitata al Catania, tentato più dalla ragione e non dal cuore: a guidare i Rossazzurri, c’è lo stesso Di Bella. Ma un Tanino ormai al canto del cigno, non se la sente di giocare contro il Palermo: chiede il cambio. Nulla di clamoroso, al Cibali. Mentre, al ritorno, neanche accetta la panchina e si accomoda in tribuna. Figuriamoci: non se ne parla proprio. Alle falde del Pellegrino, Tanino ci è cresciuto. E ha toccato il cielo: con un dito.
Dario Romano
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FARFALLINO

‘Un’ala può arrivare a Julinho, non oltre.’
(Fulvio Bernardini)
Al Palermo, fino a Favalli. La foto è relativa ad un Palermo-Monza del 16/01/1972. Erminio Favalli è affrontato da Paolo Viganò (in Rosanero dalla stagione successiva). Natali cremonesi, cresce con i Grigiorossi locali all’ombra del Torrazzo: ha un altro passo per i tempi, corre sulla fascia destra in entrambe le fasi. Un’ala che gioca da terzino e viceversa, quando occorre. Viene prelevato dai Nerazzurri meneghini, ma Jair e Corso valli a scalzare: nel ’64-’65, per la Grande Inter di Helenio Herrera è Triplete. Il satanasso va bene per i Satanelli: Erminio, al Foggia, diviene ‘Farfallino’ e vola fino a Torino. Alla Juve trova il suo ambiente ideale, dove il poco che è rimasto grezzo viene plasmato a dovere: un po’ guascone, ma professionalità allo stato puro, dopo l’esperienza bianconera. In mischia, proprio contro la Beneamata, realizza la rete dello scudetto. Ma con Heriberto Herrera il rapporto scricchiola: era così per tutti. Herrera II e quel ‘movimiento’ che faceva girare anche le scatole. Passa al Mantova, ed è promozione in SERIE A: sembra un talismano. Quando arriva al Palermo di Ninetto De Grandi, è un vero gioiello e si conferma portafortuna. Stagione 1971-1972: l’ultima promozione in massima serie per i Rosanero, prima dell’era Zamparini. Fino al ’78, totalizza 213 presenze e sei reti. Favalli è un tuttofare: chiusa la carriera da capitano, lo vediamo anche nelle vesti di allenatore per un giorno, e che giorno. Quando lo ‘sciagurato Egidio’ porta ancora più sciagura al Milan, con quella tripletta che asfalta i Rossoneri. Alla Favorita, in panchina, siede proprio Erminio. Giocatore, Capitano, Allenatore, Direttore Sportivo: il calcio vissuto a 360 gradi. A Palermo come a Cremona, dove torna, formando con Luzzara il tandem dei gentiluomini. Quelli ci fanno preferire, ancora una volta, lo sport com’era una volta. Quando la farfalla prende il volo, le sue alette hanno i colori Grigiorossi. Ma si vede anche il Rosanero.
Dario Romano
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L’ARCHITETTO

‘Ho trovato una città aperta, piena di fascino, con la sua storia, i monumenti, i suoi colori, i suoi sapori…’
Sandro Vanello è iscritto alla facoltà di architettura a Milano e di scendere in Sicilia non ne vuole proprio sapere. Ma a Palermo si laurea, si innamora di una bellissima donna e della città intera (tante le amicizie, soprattutto con Ferruccio Barbera). L’esordio nella massima serie è storico, perché subentra dalla panchina durante un Napoli-Verona: è il primo giocatore di movimento con il numero tredici del campionato italiano e la realizzazione della rete scaligera porta proprio la sua firma. La dimostrazione che dalla panchina si possono cambiare le partite: è una piccola ma significativa rivoluzione. Sandro torna all’Inter (che ne deteneva il cartellino) e dopo una stagione con sole otto presenze, fa le bizze alla notizia del suo trasferimento imminente al Palermo. Come visto, cambierà idea. Ben cinque stagioni all’ombra del Pellegrino, dove accende la luce. Le presenze saranno 151, condite da dodici reti e caratterizzate da una cadenza lenta ma sopraffina e soprattutto dalla precisione nei calci piazzati, preziosi assist per i compagni oppure conclusioni a foglia morta, come insegna il celebre Mariolino Corso della Grande Inter. Il tutto suggellato da una promozione in SERIE A nella stagione 1971-1972 (l’ultima prima dell’era Zamparini) e da un matrimonio felice con la nostra terra, in tutti i sensi. Vanello avrà Bologna nel destino: partecipa a quella maledetta finale di COPPA ITALIA e proprio con i felsinei chiuderà la carriera. Lascia l’isola che non voleva per realizzare il sogno che da ragazzo aveva: esercitare la professione che ne fece un dottore, dopo averla sperimentata in campo. Indubbiamente, la visione di gioco era di categoria superiore. James Matthew Barrie diceva: ‘C’è un’isola che non c’è per ogni bambino, e sono tutte differenti.’ Aveva proprio ragione.
Dario Romano
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IL NETZER DI SEREGNO

Era il soprannome di Paolo Viganò, per la somiglianza con il campione del Mondo e d’Europa teutonico, uno degli alfieri del Kaiser Franz. Comincia con la Juventus, poi una sola presenza in SERIE A con la Roma, per scoprire la cadetteria con le maglie di Monza e Palermo. Come dimostra la foto, la stazza e la potenza muscolare non mancavano: sembrano le gambe di ‘Kalle’ Rummenigge. Le muoveva sulla fascia sinistra, dove vent’anni dopo vedremo un altrettanto biondo terzino, di nome Giovanni e di cognome Caterino. A più alti livelli, Federico Balzaretti. La palma della chioma rubia è tutta sua. Viganò disputa quattro campionati in maglia rosa, per un totale di 107 presenze senza realizzazioni a referto. La mette, invece, proprio alla Favorita, ma da Rondinella: stoppa il volo di un esultante Vito Chimenti, tarpando le ali alle Aquile Rosanero. Il classico goal dell’ex in un Palermo-Brescia versione cadetta. Non potrà disputare la maledetta finale della COPPA ITALIA scippata dal Bologna, nel ’74, causa squalifica. Non si sarà crucciato più di tanto: esito non scontato, ma già scritto. Dopo Brescia e Novara, chiude da dove era arrivato: nei brianzoli monzesi, annata 1980-1981. Alla vigilia del Mundial. Lasciamo perdere Günter Theodor Netzer: la coppa, stavolta, non sarà crucca.
Dario Romano
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IL BUCO ROSANERO

Back row L-R: Girardi, Pereni, Vanello, Landri, Troja, Landini.
Front row L-R: Arcoleo, Ballabio, Pasetti, Viganò, Favalli.
SERIE A
15th
Che inghiotte trentun anni della nostra storia. Quasi nel mezzo del cammin di una vita intera, la SERIE A diverrà una chimera. Il Palermo di Renzo Barbera ci farà comunque sognare, con due finali di COPPA ITALIA da cadetta, ma che disdetta. L’ultima stagione nella massima serie, prima dell’era Zamparini, ci consegna tanto amaro e nessun dolce. Tuttavia, i nomi dei protagonisti fanno comunque scendere la lacrimuccia. Girardi, Landini, Landri, Viganò, Arcoleo, Reja, Favalli, Vanello, Ballabio, Ferrari, Troja. Vecchi cuori Rosanero. Che non possono nulla, quando l’annata è proprio storta. Da Umberto Pinardi, il timone passa ad Alvaro Biagini, ma la rotta non cambia e si scende verso il baratro. Il Palermo tiene tra le mura amiche, ma le vede invalicabili in trasferta. Quattro reti rimediate al debutto esterno dal Milan, la vittoria sul Torino col rigore del ‘righello’ Sandro Vanello, architetto in campo e di fatto. Le vittorie contro Napoli e Fiorentina sono soltanto dei piccoli fuochi di paglia: perché non si segna mai. Quando cede il fortino, prima al cospetto delle grandi (si comincia con la Juve e col solito Altafini), poi con il resto della compagnia, non resta che sventolare bandiera bianca. Tre sole vittorie, undici pareggi, ben sedici sconfitte. Appena tredici le marcature: il peggiore attacco del torneo. La SERIE B è servita: non è un arrivederci a presto. Per la coppa scippata, invece, manca un solo anno. Non l’abbiamo digerita ancora.
Dario Romano
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LA DIAGONALE

Stagione 1973-1974, l’annata della prima finale di COPPA ITALIA disputata dal Palermo. Da Lazio e Inter arrivano gli attaccanti per Corrado Viciani: si tratta di Giacomo La Rosa e Sergio Magistrelli. Sono cinquanta le presenze e ventuno le realizzazioni in due stagioni per il primo, mentre ne contiamo venticinque e nove per l’autore della rete nel sacco di Roma. Tornerà tre anni dopo, per una seconda e più duratura permanenza. La maglia in diagonale richiama l’idea della bella Principessa di Monaco: per il club del Principato, nel 1960 Grace Kelly si improvvisa stilista e nasce un completo tra i più originali. La rivedremo negli anni ’80, in versione bianconera, per l’Udinese di Zico. Per il club di Renzo Barbera, una maglia discutibile ma rarissima. Per i collezionisti, il Gronchi Rosanero.
Dario Romano
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BASSA PRESSIONE

Il capocannoniere, in condominio con Alberto Spelta del Modena, della serie cadetta edizione 1970–1971. Sulle rive del lago di Como, il bomber non è promesso, ma è cosa fatta. Quindici reti che valgono il passaggio a Bergamo: il matrimonio con la Dea e la SERIE A è cosa buona e giusta. Il nerazzurro dona a Sergio Magistrelli, che sposa anche la Beneamata. Ma c’è troppa concorrenza: un passo più lungo della gamba. Mazzola e Boninsegna, valli a scalzare. La ripartenza, è proprio a tinte Rosanero. Tre le stagioni al Palermo, per un attaccante tradito spesso dalla pressione bassa, che ne limitava il rendimento. Un vero peccato, poiché le sue prestazioni rilasciavano proprio questa sensazione: se tirato a lucido, questo le partite le spacca. Mister Viciani cerca di smussarne i difetti, almeno sulla concentrazione. Lo rimbrotta: troppe attenzioni per la consorte ed è così che anche col goal, si va a nozze. Sergio, infatti, a tratti è devastante. Pure determinante, fino a mettere la firma su una pietra che non sarà miliare: è sua la splendida rete nella finale di COPPA ITALIA del 1974, quella ‘scippata’ dal Bologna. Arrivederci a presto. La sua parabola in maglia rosa risulta doppia, poiché interrotta: come detto, l’arrivo dall’Inter nel 1973, con venticinque presenze e nove reti a referto. E dopo una parentesi alla Sampdoria, torna protagonista all’ombra del Pellegrino, per altre due stagioni (dal 1976 al 1978). La punta totalizza altri 62 gettoni e quattordici realizzazioni. Per Magistrelli, tuttavia, la bandiera si pianta a Via del Mare: cinque annate in Salento, prima del fatidico chiodo, appeso dopo la breve esperienza al Francavilla. A noi lascia un bel ricordo, come questa splendida foto che lo ritrae a caccia del pallone. Capelli al vento, barba folta, la Favorita stracolma. Di fervore, di passione. La pressione, altissima.
Dario Romano
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A VOLTE RITORNANO

Back row L-R: Majo, Vianello, Trapani, Pepe, Ballabio.
Front row L-R: Favalli, Novellini, Piras, Longo, Larini, Viganò.
SERIE B
11th
Una salvezza ed una promozione. Il precedente di Ninetto sulla panchina del Palermo fa ben sperare. Ma il ritorno di De Grandi è un fiasco. Succede spesso, nel calcio. Chiamatela pure minestra riscaldata: la sostanza, non cambia. Un pari e tre sconfitte in coppa: si sente forte, l’allarme. Assordante dalle prime botte in campionato: due vittorie e due pari, a fronte di cinque sconfitte, di cui una col Taranto alla Favorita. Per ‘Fiordaliso’, arriva il benservito. A malincuore, ma prevale la ragione. Questo andamento, mostra i rosa allo sbando. Lo scossone porta bene: un altro ritorno, gradito alla piazza ed alla tifoseria. Tonino De Bellis ha chiuso col calcio giocato da quattro stagioni: si meriterebbe un monumento fuori dallo stadio. Pietra a memoria imperitura. Non lascia Palermo, non la lascerà mai: figuriamoci quando il grido d’aiuto giunge dritto ad un cuore Rosanero. Lascia le giovanili e si cimenta nella nuova avventura. E Renzo Barbera gongola: la scelta, si rivela azzeccata. Il Palermo batte la Reggiana, perde di misura al Partenio, ma esce indenne dal Cibali. Torna a vincere con la Sambenedettese, ma ottiene quattro punti nelle restanti sei gare. Si chiude un girone d’andata complicato, ma la squadra sembra più compatta. Malgrado tutto, poiché lo stesso Tonino sente puzza di bruciato. Lo spogliatoio è caldo, ma nel ritorno tanta foga trova sfogo in campo, accendendo gli animi degli astanti: c’è da restare increduli. Il Palermo è trasformato: ne esce un filotto di sei affermazioni e quattro pari, da aggiungere al punto rimediato col Varese a Febbraio, che prelude al giro di boa. La caduta a San Benedetto del Tronto è indolore. Peccato, perché a pensarci bene, con un piccolo sforzo, si poteva anche sognare. Ma il Palermo è pago. Una vittoria, tre pareggi e due sconfitte bastano, per tenere a distanza la zona pericolo. Si chiude al nono posto, undicesimo per la folta compagnia, a meno sei dal baratro e meno sette dal sogno. Salgono in massima serie Genoa, Catanzaro e Foggia, mentre lasciano la cadetteria Piacenza, Brindisi e la Reggiana fanalino di coda. L’esplosione di Guido Magherini, prelevato in estate dal Brindisi e mai più così convincente in carriera, le incursioni di Arturo Ballabio e l’esperienza di Aldo Cerantola ed Erminio Favalli hanno sorretto una baracca che stava per crollare. Il resto, ce lo ha messo Tonino. Che torna a sentire quella puzza che non lo convince. Si dimette, poi cede al cuore ma non alla ragione. Riparte in sella, su un Palermo imbizzarrito.
Dario Romano
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AD UN PASSO

Back row L-R: Conte, Citterio, Borsellino, Vullo, Frison.
Front row L-R: Chimenti, Di Cicco, Iozzia, Brignani, Osellame, Majo.
SERIE B
6th
Subentrato nel finale di una stagione con due cambi al timone, l’ex attaccante dal volto intrigante si guadagna la conferma. In panca, siede Nando Veneranda. Potrebbe fare pure l’attore, il lungagnone, ma meglio così. Un signor allenatore, ‘El Gringo’, che al Palermo è al primo atto di un trittico col finale tragico. Tutt’altro all’inizio: si sfiora il botto. Il colpo grosso non si materializza per un soffio: il fiato corto ad un passo dal traguardo ed il sogno è infranto. Un vero peccato, considerando l’andamento in un torneo meno complicato del previsto. Da una retrocessione scongiurata ad una promozione sfiorata: ma alla fine, rimane tutto come prima. Dal Matera, arriva Vito Chimenti: è questa la notizia. Non sarà un centravanti come tanti altri: questo, è per cuori forti. Sedici reti, tanto spettacolo ed un cavallo di battaglia: la bicicletta. Si è alzata l’asticella, in un reparto che resta comunque anemico: si segna poco, un mal comune che di gaudio ha altrettanto. Difese agguerrite ed a volte basta una sola rete: quel che non manca, ogni tanto, al Palermo. I Rosanero partono al piccolo trotto, confermando un limite che ai tempi è la norma: in trasferta, si fa spesso cilecca. Pistoiese, Ascoli e Sambenedettese la spuntano, mentre alla Favorita ci si abitua al pari a reti bianche. Dieci pareggi, nel girone d’andata: troppi e decisivi, considerando che quattro punti in più, al tirar delle somme, avrebbero consentito il salto in massima serie. Al giro di boa, si svolta e Vito si materializza in tutto il suo splendore. Soprattutto ad Aprile, quando il Palermo cambia passo e nulla è più lo stesso. Si espugna Taranto, la terza ed ultima affermazione lontano dal Pellegrino, alle cui falde lo stadio si è fatto fortino: imbattuti in casa, per tutto il campionato. Quattro vittorie consecutive nella bolgia spalancano i sogni di gloria. Con Chimenti, è bandiera rosa ai quattro venti. A quattro giornate dalla fine, si batte la Ternana e si incrociano le dita: che sia la volta buona. Lo scontro diretto col Catanzaro, però, sorride ai Giallorossi, la Cremonese strappa un punto che non gli servirà più di tanto ed in Emilia Romagna la conferma: da rosa, la bandiera del Palermo si è fatta bianca. Due a zero per il Cesena, con i giochi ormai fatti. Coinvolti tutti, escludendo la testa e la coda. Modena fanalino, con appena venti punti. La stessa Cremo ed il Como la distanziano di brutto, ma non evitano il baratro. Lassù, invece, un Ascoli inarrestabile: appena tre sconfitte, ben ventisei vittorie. I marchigiani di Rozzi, Renna e del cannoniere Ambu fanno il vuoto. Chiudono a sessantuno, con Catanzaro e Avellino appaiate seconde e promosse a quota quarantaquattro. I rosa chiudono al sesto posto: a quattro punti dalle premiate. Un piccolo passo, un ultimo sforzo: mancato troppo spesso. Non soltanto per il fiato corto: al primo Palermo di Veneranda non si può rimproverare nulla. Nel calcio, la differenza è fatta da uomini come Vito Chimenti. E da un pallone che non entra. La torta, indigesta: ma la ciliegina resta.
Dario Romano
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UN PEZZO DI CIELO

Un muro di ombrelli accoglie Vito Chimenti, esultante per la rete del vantaggio Rosanero. Siamo al 75′ di un match del 09/10/1977, tra Palermo e Brescia, relativo alla quinta giornata del campionato cadetto, terminata in parità. Infatti, a due minuti dalla fine, arriverà il pari dell’ex Paolo Viganò. Un punto perso che costerà caro, sommato ad altre occasioni sprecate: valgono il sesto posto finale, a sole quattro lunghezze dalla promozione. È una foto storica, che testimonia un calcio d’altri tempi. Vito esulta alla vecchia maniera, quella più sincera: cerca la folla, al diavolo i riflettori. Ad accendersi, un rosa acceso, avvolto dal nero tutt’intorno. Una calca assiepata all’inverosimile: l’ultima volta, con un tempo così inclemente, per un Palermo-Pistoiese indimenticabile, nell’anno di grazia 1995. In campo, undici leoni ed uno su tutti: Beppe Iachini. Sugli spalti, tifosi autentici, genuini: sanno che anche in condizioni disagiate, tra spruzzi e imprecazioni, puoi vedere un pezzo di cielo. Regalato da un cannoniere, un calciatore vero. Senza il bisogno di guardare in alto.
Dario Romano
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LA BICICLETTA

La storia del Palermo è condita da attaccanti di valore: Radice, Di Maso, Bronée, Vernazza, Troja, De Rosa, fino ai nostri eroi del calcio moderno. Vito Chimenti fa parte della batteria: colpi assordanti, per ventinove volte in due stagioni. Ancora impressi, oltre ogni immaginazione. Echi lontani, che tuttavia hanno rapito per sempre i nostri cuori Rosanero. Scandendo una settimana dietro l’altra, contando i giorni per poterlo rivedere in azione. Per gli over 40, prevale sempre la nostalgia: l’appuntamento domenicale, le maglie immacolate, lo stadio una bolgia. Inutile negarlo: per gli appassionati, si stava decisamente meglio. Ma la retorica affonda, quando a sommergerla è l’evoluzione. L’avvento delle Pay TV e la legge Bosman hanno creato un altro calcio. Quello che ci fa vedere pure gli sputi e le gomitate. Tranquilli, da questo punto di vista non è cambiato nulla. Basta leggere le interviste dei vari Causio, Furino, Benetti: pizzicotti, sussurri, offese gratuite. Non oso immaginare cosa ha dovuto sopportare un monumento come Tonino De Bellis. C’è anche dell’altro: il doping ed il mondo corrotto delle scommesse, che hanno fatto sempre da contorno. E allora non è cambiato poi così tanto, questo calcio. Già agli albori, la guerra tra Pro Vercelli ed Inter sembra mondiale, rispetto alla punica tra Palermo e Frosinone. Ne sentiamo e vediamo soltanto di più, quasi ogni giorno. A rimetterci, soprattutto la tradizione: completini improbabili, colori abominevoli, commenti vomitevoli. E un campo verde riempito da giocatori che indossano maglie da ciclisti, con spalti sempre più vuoti. Chimenti no: maglia immacolata, la Favorita gremita. Esulta, abbracciato da chi ha indossato i nostri colori come una seconda pelle e sempre dietro le quinte. Vito regalava spettacolo ed emozioni. Trasmetteva quella purezza oggi perduta. Soprattutto, la metteva che era un piacere. In più, la bicicletta, ti faceva vedere.
Dario Romano
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IL RIMPIANTO

Back row L-R: Arcoleo, Maritozzi, Silipo, Citterio, Frison.
Front row L-R: Chimenti, Brignani, Di Cicco, Borsellino, Osellame, Montenegro.
SERIE B
7st
Una delle maglie più belle di sempre, griffata Admiral, per una stagione cui è mancata la giusta conclusione. Vito Chimenti, la sua bicicletta, in finale la disdetta. La giusta accelerata manca in attacco, per una squadra ben quadrata ma piuttosto anemica. Il centravanti chiude con tredici marcature: gli altri, restano a guardare, piuttosto che pedalare. Il campionato inizia con due pareggi ed una sconfitta, poi la vittoria alla Favorita contro la S.P.A.L. Arrivano due altre X e due vittorie, con il colpo gobbo a Marassi: 2-3 al Genoa e sembra la svolta, ma per il precipizio. Si perde l’imbattibilità casalinga, con il secondo viaggio in Liguria indigesto e la Leonessa che ci sbrana a Brescia, ribaltando il solito Vitogol. Tre punti contro Bari e Foggia all’ombra del Pellegrino e poi se non è record poco ci manca. Una sola rete (vittoria contro la Nocerina) in sei gare, con l’Udinese maramalda in Sicilia. Eppure, il Palermo di Veneranda c’è e nel girone di ritorno dà il meglio di sé, sfiorando il botto. Tredici gare da imbattuta, due sole cadute in tutto il girone, il traguardo della finale in COPPA ITALIA. La seconda, da cadetta, non conquistata per un soffio. Spiccano le affermazioni a Torino Granata, a Roma contro la Lazio (risolta ai rigori), col Napoli al San Paolo in semifinale. Fino al minuto 83, con Brio che ci toglie il prio. Il Barone Causio evita la lotteria dei rigori a tre minuti dallo scadere dei supplementari. Rosanero in vantaggio dal primo minuto, ovviamente inutile specificare l’autore del gol. Realizzato in diretta durante il Telegiornale, per un collegamento che ha fatto storia. Poi, senza bicicletta, la lunga pedalata, chiusa a pochi minuti dal traguardo, col nostro bomber in panca, appiedato dal primo della ripresa. Renzo Barbera si appresta a lasciare la sua presidenza: ha ottenuto il massimo, ma non con il minimo sforzo. Ha dato tutto e anche di più. La promozione dista soltanto sette punti, persi come si è persa più di un’occasione. Ci resta nella testa questa stagione: quella del rimpianto. Per un girone d’andata così così, per una finale sprecata. Per il Presidentissimo d’altri tempi. Per le reti di Vito Chimenti.
Dario Romano
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BUGIA

Un appuntamento da non perdere, quello tra Rossoneri e Blucerchiati. Perché Milan contro Sampdoria è soprattutto Marco van Basten alle prese con Pietro Vierchowod: il cigno di Utrecht e lo Zar. Quanto di più il mio calcio, tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, non poteva offrire. Da neutrale, poiché Rosanero e basta dalla nascita. Almeno, dalla presa di coscienza. Spettacolo alla tele ai minimi termini, come c’era una volta: l’occasione, per sempre ghiotta. Soprattutto, vedere il fuoriclasse olandese in difficoltà, al cospetto del mastino di origini ucraine. Poi, la rivelazione: inaspettata. Perché hai sempre creduto che l’avversario più tosto, per l’azzurro, sia stato proprio il tulipano. La verità è spiattellata dalla carta, che in questo caso urla forte e punta dritto al mio cuore di tifoso. ‘Era imprendibile, scattava da una parte all’altra senza che io riuscissi a fermarlo. Uno come Montesano lo incontri una sola volta in una carriera intera.’ Sono le parole del difensore, mica una bugia. Il riferimento è riservato al più brasiliano dei brasiliani stessi che hanno indossato la maglia del Palermo, soprannominato proprio ‘Bugia’, ma anche ‘Montesamba’. Sulla seconda, c’è poco da spiegare. La prima, nasce da una sparata grossa del funambolo sull’accordo contrattuale: quaranta invece dei ventuno milioni pattuiti. Erminio Favalli è preso in contropiede: ‘attenzione, che questo dice minchiate.’ Il budget è salvo: Farfallino sulla fascia volava, ma dietro la scrivania ha imparato bene a fare catenaccio. Le dichiarazioni di Vierchowod proseguono, sottolineando: ‘considerate che ho dovuto marcare più volte il più grande di tutti: Diego Armando Maradona. Ma uno come Montesano non l’ho più incontrato.’ Apriti cielo: così si tocca il mio orgoglio, tutto Rosanero. Lo Zar ha affrontato Giampaolo Montesano dopo il suo addio al Palermo. Stagione 1984-’85, il preludio alla radiazione e già mi piange il cuore. Bugia vola in SERIE A, mentre il baratro è dietro l’angolo. Questa è la verità, mentre il fantasista per eccellenza gioca dove merita, al fianco del brasiliano vero e di ben altro livello: è l’Udinese di Zico. Una toccata e fuga, all’ombra di Arthur Antunes Coimbra. O Galinho è pure zoppo, ma non puoi prenderne il posto di diritto: risultato, poche presenze in Friuli e tanta malinconia dalle nostre parti. Non potrebbe essere altrimenti: le bugie, hanno le gambe corte. Nel calcio, anche se nel nostro piccolo, le gambe del nostro numero sette. Le faceva danzare eccome, a partire da quella maglia targata pouchain e con quel logo così moderno. Poi nr e VINI CORVO. Svezzato da Eugenio Fascetti al Varese, in campo sembra proprio un matto: da legare, durante quelle cinque stagioni passate all’insegna del divertimento. Le presenze arrivano a 170, condite da ventuno realizzazioni. E storie come questa: leggenda o bugia poco importa. Io ci credo: sa tanto Rosanero. La Favorita è lo scenario, Palermo-Verona l’incontro. Un avversario scaligero, umiliato a più riprese dalle ‘bugie’ di Montesamba, sotto forma di dribbling ubriacanti, reagisce duro entrando altrettanto sulle gambe dello sgusciante. Una giocata di troppo del giocoliere che vale una meritata espulsione. Diretto mestamente verso una doccia anticipata, il malcapitato si vede lanciare dagli spalti una pasticca: per ingoiare il rospo. Indorata e accompagnata dalle seguenti parole: ‘pigghiati ‘a pillola pu mal di tiesta e nun ci pinsari cchiù!’ Storie palermitane, dolci e amare, com’è tradizione a queste latitudini. Infatti, pensandoci a posteriori, anche dopo tanti anni: che giocatore era, Giampaolo Montesano. Forse un fantasista e basta, dotato di quel talento utile per farti vincere una partita, ma inutile per vincere un campionato. Un mistero che non ci ha mai abbandonato. Resta il ricordo delle sue giocate e di una formazione che abbiamo adorato. Volpecina, Lopez, De Stefanis, De Rosa è tanta manna, con Montesamba: uno squadrone da promozione. Era anche questa, una bugia.
Dario Romano
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TIRA LA BOMBA

‘Tira la bomba, Massimè.’
Massimo De Stefanis ha disputato cinque stagioni con il Palermo, dal 1979 al 1984. A referto, 169 presenze e trenta reti. Romano, ma di fede laziale (arriva proprio dalla società capitolina). Il numero dieci per eccellenza: elegante e caparbio, dotato di un tiro potente e preciso. Spesso, anche determinante, come la rete a San Siro in COPPA ITALIA contro l’Inter, che vale l’unica vittoria dei Rosanero, al Meazza, contro i Nerazzurri. Chiuderà la carriera nel 1989, indossando come ultima casacca quella dell’Ancona. In precedenza, le esperienze con il Perugia e l’Arezzo. Impossibile non menzionare l’episodio che lo vede applaudito, dal pubblico della Favorita, pure in occasione di una rete da avversario. A testimoniare stima imperitura. Che squadra, quel Palermo: illuminata dal suo faro e dagli abbaglianti, tra i baffi, di Totò Lopez. In mezzo a tanta luce, la tempesta: negli anni ’80, la notte calava in men che non si dica. Proclami roboanti e risultati altalenanti: in sintesi, più si guardava in alto e più si scendeva in basso. Nel guazzabuglio, ogni tanto, partiva comunque la botta. Perché Massimo era, soprattutto, un pericolo costante sui calci piazzati. Rivedendolo in video, colpisce la postura nel calciare il pallone e la pulizia del gesto tecnico. E la curva intonava il coro, in attesa di esplodere: dopo la bomba.
Dario Romano
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IL BAFFO

Pugliese, nativo di Bari, Antonio ‘Totò’ Lopez disputa col Palermo tre stagioni (dal 1980 al 1983). Totalizza 101 presenze e otto reti in Rosanero, tutte nella serie cadetta. Proveniente dalla Lazio e tornato nella sua città, dopo l’esperienza in Sicilia, si toglierà la soddisfazione di riportare i Galletti in SERIE A nel 1985: una stagione da assoluto protagonista. Ottimo regista e fantasista ma anche, all’occorrenza, un mediano infaticabile. Il classico verticalizzatore di gioco, che accendeva la luce per Massimo De Stefanis e suggeriva le bugie da raccontare a Giampaolo Montesano. Altro pezzo pregiato di quella squadra che, probabilmente, avrebbe detto la sua pure nella massima serie. Un’impressione che non mi ha mai abbandonato: certi climi infuocati, tipici della SERIE B di allora, mal si addicevano ad un team più propenso alla tecnica che alla pugna, soprattutto in trasferta. La stagione migliore prelude al Mundial spagnolo, con un settimo posto colmo di rimpianti. Lopez, con i Biancocelesti, si cimenta soprattutto nella fase difensiva, mentre all’ombra del Pellegrino scopriamo un altro giocatore. Riconoscibilissimo in campo, per la folta chioma ed i baffoni stile anni ’70, nella zona nevralgica notiamo un giocatore raffinato, più consapevole dei propri mezzi. Li metterà a frutto da profeta in patria, ma anche in Abruzzo ha lasciato un buon ricordo: con il Pescara, riesce a fare spesso la differenza, con sette realizzazioni a referto. In Puglia, due promozioni dalla terza alla massima serie, condite da una semifinale in COPPA ITALIA. Il suo trasferimento ci lascia un buco enorme: il segnale di una demolizione che, presto, farà rima con radiazione.
Dario Romano
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GLORIA A TE

A partire da Ronaldo Il Fenomeno, quanti pacchi abbiamo visto, in seguito, con l’etichetta stampata: il prototipo del centravanti moderno. Copie malfatte. Meglio seguire le istruzioni: vai su YouTube, digita ‘Palermo 1982’ e goditi lo spettacolo: fenomenale. I giocatori sono sempre in movimento fluido, accentuato dai calzettoni bianchi e da una chioma capelluta che sembra fabbricata in serie. Gianni fa da sponda, spalle alla porta la smista indietro o sulle fasce e poi si gira e scatta. Lopez, De Stefanis o Montesano la metteranno in area, puoi contarci. Se sarà sporca, ci penserà lui a dargli una lucidata: avvitamenti di testa in tuffo, salti imperiosi, spaccate. L’area aveva il suo padrone e poco importa, se gli ospiti si chiamavano Sambenedettese o Pistoiese. Chi ha le chiavi entra pure dalla porta di servizio: corner, marcature ad uomo alla Claudio Gentile e lui si defila, come un leone sdegnato da una preda, ormai delle iene. Gianni lo sa, dove il pallone arriverà. Ecco la bomba, e poco importa se la vittima di turno si chiama Verona. Sono gemme incastonate, come la Cassanata bianconera. Noi ai margini, mentre stava nascendo il campionato più bello del Mondo, ma alla Favorita era già tutto molto bello. L’attacco degli spazi, le ripartenze, l’abbattere gli avversari chiusi a riccio, mentre oggi è più facile agire di rimessa, che vuol dire giocare in contropiede. A parte la qualità delle immagini, non ci vedo nulla di antico, nel calcio anni ’80, che era quello di De Rosa: la potenza ed il controllo. Meno muscoli, più cervello e tanta professionalità, sancita da ritiri precampionato estenuanti, dove facevi il pieno di benzina per tutto l’anno. Ad ogni rete la corsa verso la curva o l’abbraccio sovrastante dei compagni: pochi secondi e non lo vedevi più. L’esultanza solitaria non esisteva: si vinceva e perdeva in gruppo. Sono piccoli particolari che saltano all’occhio, dettagli che fanno la differenza. Il centravanti realizza diciannove reti e si aggiudica il titolo di capocannoniere al primo anno, poi il pit stop per una banale appendicite: tornerà forte come e più di prima ed è ancora doppia cifra. Al Napoli sfiora Maradona, lo manca solo per un soffio: peccato, altro che reti per la salvezza. Ed invece non perde l’appuntamento con un destino atroce: anche per un satanasso dell’area di rigore, c’è sempre un Satana in agguato, nella giungla. Smette quasi quarantenne, da allenatore/giocatore: la passione dopo averci appassionato. Si è preso una fetta di cuore e risiede nel nostro Pantheon, in buona compagnia. Radice, Di Maso, Vernazza, Troja, Chimenti, Toni. I prototipi dei centravanti Rosanero. E poi c’era quella sintesi perfetta tra nome e cognome: nome Gianni, cognome De Rosa. Ci stava a pennello.
Dario Romano
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ONCE UPON A TIME

C’era una volta il Palermo. Con quella maglia rosa della nr e lo sponsor VINI CORVO. Non avrei mai pensato che il calcio del futuro ci avrebbe ‘regalato’ una casacca da ciclisti, con tutto il rispetto per i pedalatori. Scritte dappertutto, spazi usurpati per pochi spiccioli. Non ci sono ‘i soldi’, è colpa di Hera Hora. Mi accontento: di tutto il resto, ero proprio stanco. Senza oro, un po’ d’incenso e Mirri.
C’era una volta la SERIE A, l’Europa, lo squadrone che tremare tutti fa. L’apice della nostra storia, avvelenato da un clima infuocato e da un patron indemoniato. L’abbiamo amato e odiato con un solo risultato: lo stadio svuotato. Da catino a paniere, il passo è stato breve.
C’erano una volta giocatori come Gian Piero Gasperini e Gianni De Rosa: un onesto mestierante ed un grande attaccante. Il primo si sta prendendo le sue soddisfazioni come allenatore: purtroppo, il suo gioco, in salsa Rosanero, non l’abbiamo assaporato. Ad un certo punto, si è smantellato tutto. Il centravanti, invece, ha fatto breccia nei nostri cuori, lasciando un vuoto incolmabile. Quel che resta, è l’amore a prima vista: per la maglia più bella. Malinconia, non importa la categoria, ma portami via. Prendo l’arte della fotografia, di quelle che c’erano una volta, come Mario Cucina insegna. Il resto, lo metto tutto da parte. Once upon a time.
Dario Romano
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OGNI MALEDETTA DOMENICA

Sveglia, colazione: non mangio a casa, ma la pasta al forno di Mamma è tentazione. Mi ci immergo: ma è tutta la domenica, da immersione. Panelle, crocchè, meusa: per strada, il ritocchino si trova e ci vuole. Il parcheggio è un problema, ma poco importa. Anche lontano dallo stadio, la passeggiata dal rosa colorata è grande accoppiata. Bagarini no, grazie: faccio la coda, che gatta ci cova. Pochi controlli, niente tornelli e poi i gradoni, fino ai ‘servizi’: che poi ti scappa al momento giusto, che è sempre quello sbagliato. I primi cori, le narici avvolte da un odore penetrante che vuol dire Favorita, il Palermo, Gianni De Rosa. I fumogeni, il mio arrosto e poi la vista mozzafiato: un tappeto verde, circondato da un ovale assiepato. Un po’ spelacchiato il primo, un uovo pronto a prorompere il secondo. La mia bolgia, con la sua ombra soave: il Pellegrino è una benedizione di Santa Rosalia. Lo scenario più bello che ci sia ha pure gli effetti speciali: l’acustica, è da brividi. Datemi del pazzo, ma a volte ho cercato il posto più isolato per sentirla come si deve, la musica per le mie orecchie. Ghiaccioli e monete volanti, prima e durante la partita: spostati, siediti che non vedo nulla. Meglio così: seduti e composti ci si sta quando le vacche sono magre. Oltre al sapore, manca pure il piacere e a festeggiare da solo, che piacere c’è. Stanno entrando in campo, i miei idoli Rosanero. Vedo Gianni ed è cosa buona e giusta. Anche Totò, riconoscibilissimo con quel baffo da sparviero navigato, Massimo, che tirerà la sua bomba e Giampaolo, che ci racconterà le sue bugie. Farà il suo anche un discreto giocatore: di nome, fa Gian Piero. Di fatto, un giorno, signor allenatore. E poi ci siamo noi. Alcuni minuti di radiolina: perché hanno giocato al Totocalcio, oppure affetti da strisciavirus. Io no: per me esiste ‘solo il Palermo’. Ciotti e Ameri a divagare, ma soltanto i risultati dei cadetti, mi possono importare. Stadio e radio, radio e stadio. Con tanto di botto finale: quella rete che si gonfia, la mia ciliegina sulla torta. Torno a casa, contento o amareggiato. Dolce come il rosa, nero come l’amaro: nulla di più vero e sacrosanto. Inizia ‘Novantesimo minuto’: la fine del rito infinito. Ogni maledetta domenica.
Dario Romano
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AQUILE E RONDINELLE

Una trasferta trionfale per i Rosanero, che il 13/12/1981 espugnano, con il punteggio pirotecnico di tre reti a due, il Rigamonti di Brescia, grazie alle realizzazioni di De Stefanis, Gasperini e Lopez. Nella foto, vediamo Gianni De Rosa a dar man forte in difesa, con Mauro Di Cicco e la palla contesa. Il difensore è stato una colonna della difesa del Palermo, per ben per otto anni, dal 1976 al 1984. Mai una rete, ma all’attivo ben 248 presenze. Proveniente dalla S.P.A.L. dove debutta in serie cadetta, chiuderà la carriera con il Pescara. In sintesi, il nostro De Bellis degli anni ’80, uno di quelli vecchio stampo che non varcavano la metà campo. Titolare a Napoli in finale di COPPA ITALIA contro la Juve e di una squadra che proprio con la vittoria in Lombardia comincia a sognare la tanto agognata SERIE A. Soltanto cinque punti ci separano dal salto, di cui due persi a tavolino nel derby di ritorno col Catania. Una sassaiola contro il pullman degli etnei impedì al terzino Renato Miele di scendere in campo, ferito alla testa. Giampaolo Montesano il marcatore vano della gara. La vittoria contro le Rondinelle sarà seguita da altri risultati più roboanti: le Aquile espugnano Roma e Pescara con due sonori 0-3 contro la Lazio e 0-5 in Abruzzo. La stagione del compianto centravanti è da incorniciare: per De Rosa, diciannove reti per la gloria, a memoria imperitura. Capocannoniere del campionato e la cannonata contro il Verona, mattatore del torneo ma alla Favorita matato a buon partito. La ciliegina di una torta che poteva avere un altro sapore: quello della promozione. Per la Leonessa bresciana, invece, resta il boccone amaro: è retrocessione.
Dario Romano
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VIETATO SOGNARE

Back row L-R: Venturi, Marmaglio, Piagnerelli, Volpecina, De Rosa, De Stefanis.
Front row L-R: Odorizzi, Gasperini, Di Cicco, Lopez, Montesano.
SERIE B
15st
La prima di quattordici stagioni che ci precludono il sogno chiamato SERIE A. Bisognerà aspettare ‘il Palermo dei picciotti’ per sperare in una promozione che diventerà un’ossessione. Inoltre, dietro l’angolo c’è la retrocessione, scampata per un soffio: poi, il baratro della radiazione. Si riparte da un settimo posto e da una intelaiatura di prim’ordine. Bigliardi, Di Cicco, Volpecina, De Stefanis, Lopez, Montesano, De Rosa: tanta roba. Invece, arriva una salvezza conquistata all’ultima giornata, in quel di Campobasso. Il pari interno contro la Sambenedettese costa la panchina a Mimmo Renna: gli subentra Carmelo Del Noce, cogliendo un pari a Cava de’ Tirreni. La sconfitta etnea porta ad un nuovo avvicendamento tra i due: perdere un derby pesa, come altrettanto la cinquina ricevuta dal Monza. Una SERIE B caratterizzata da presenze ingombranti: il Milan fa il vuoto, la Lazio rischia qualcosa, ma stacca il biglietto e sul treno che porta in massima serie si accoda il Catania, all’ultima carrozza. Clamoroso al Cibali, anche se gli spareggi con Cremonese e Como si disputano all’Olimpico capitolino. Retrocedono Emilia e Puglia: Reggiana, Bologna, Bari e Foggia, con il Lecce salvo per un soffio. I Salentini chiudono affiancati ai Rosanero: a braccetto, la Pistoiese. Da segnalare la sorpresa del torneo: la Cavese di Pietro Santin e del bomber Costante Tivelli, che si ferma a tre lunghezze dal Paradiso. Una stagione anomala, guardando in casa nostra. Ventisei i giocatori utilizzati, davvero troppi per l’epoca. Le dieci realizzazioni di Gianni De Rosa a tenerci a galla: lo score degli altri è quasi assente. Trentasei marcature (due sono autoreti) in trentotto gare: anemia totale. Si parte male, con due sconfitte, poi arriva l’unica vera striscia positiva di tutta la stagione: tre vittorie e tre pareggi, prima della sconfitta di Roma. L’andamento è compromesso da uno spogliatoio spaccato: la spiegazione a posteriori non mi consola. Perché il resto, resta inconsolabile. Il nostro capocannoniere ci lascia per il Napoli: un palcoscenico che meritava. Poi sarà Sardegna, con destinazione cagliaritana: il mare sempre ad un passo, fino alla fine.
Dario Romano
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L’ONTA

Back row L-R: Venturi, Bigliardi, Majo, Pircher, Paleari, De Stefanis.
Front row L-R: Odorizzi, Montesano, Volpecina, De Biasi, Guerini.
SERIE B
17th / retrocesso in SERIE C
Prima o poi, doveva capitare. Più di ottant’anni di storia, la metà trascorsa per buona parte nei piani alti. L’attico mai raggiunto, ma un posto nel palazzo buono è spesso guadagnato. Ogni tanto, si è spesso sognato, anche più del dovuto. Ma quando l’ascensore non sale più, prima o poi ti manda giù. E arriva l’onta della prima retrocessione del Palermo dalla serie cadetta. La disdetta, si materializza dopo una salvezza per il rotto della cuffia. Gianni De Rosa saluta: il bomber lascia il promontorio per un vulcano. Dal Pellegrino al Vesuvio, il passo è un addio più deleterio del previsto. Per sostituirlo, arriva un giovanotto che di primo acchito sembra uno straniero. Ma Hubert Pircher è italiano: nato a Bressanone, il virgulto pare un predestinato. Paga qualche infortunio di troppo, ma debutta col botto in quel di Bergamo. Il rodaggio è spesso interrotto, ma il coraggio non manca: alla prima occasione in massima serie, trova la rete e più di un estimatore. Dall’Atalanta all’Ascoli, l’attaccante mostra di saperci fare, soprattutto se tirato a lucido. Sei marcature in pochi mesi gli valgono un presunto viaggio premio in Spagna. Pensateci: se non fosse stato per la pubalgia che lo rimette ai box, al posto di Franco Selvaggi il ‘Vecio’ avrebbe insignito, suo malgrado, proprio Pircher del titolo di campione del Mondo. Il destino, però, gli riserva altro: ovvero, il Palermo. Gustavo Giagnoni è reduce dal flop col Cagliari. Il tecnico sardo scende in B ma cambia isola. Le premesse sarebbero allettanti: la squadra è valida, l’ambiente bello caldo, in tutti i sensi. Dovrà fare a meno del colbacco che lo contraddistingue, ma anche dei buoni propositi. Si parte male con l’eliminazione in coppa, dove fa ancora bella mostra il mitico sponsor VINI CORVO. Il nuovo, Pasta Ferrara, non porterà fortuna. L’inizio del campionato, invece, è meno sconfortante. Reti bianche a Trieste, debutto in casa di misura sulla Sambenedettese. La porta è inviolata, fino alla terza: il ritorno in Sardegna costa la prima sconfitta, cancellata dall’affermazione contro il Catanzaro. Si segna poco, si subisce ancora meno. Segnali incoraggianti, fino a quando il Palermo ingrana la quarta ed inquadra la porta che è una bellezza. Cinquina al Pescara, due reti alla Pistoiese con Pircher protagonista. La difesa è il punto forte: in trasferta, non si fa voce grossa ma si tiene e basta. E potrebbe bastare, per sognare in grande. Quando, a Dicembre inoltrato, Gianni De Biasi la sblocca in zona Cesarini col Campobasso, i Rosanero salgono addirittura al quarto posto. Dopo, cambierà tutto: perché il Palermo non vince più. Fino a Marzo, quando si strappano due punti all’Empoli. Il reparto difensivo si è fatto colabrodo, la Favorita da fortino a terra di conquista ed in trasferta è spesso bandiera bianca. Il cambio al timone è ormai inevitabile: a Giagnoni, subentra Graziano Landoni. Al cuor non si comanda: l’ex regista dei rosa è un palermitano adottato. Prova la scossa: a Cava, il vantaggio di Massimo De Stefanis arriva vicini allo scadere. C’è un rigore nel finale: per la Cavese, trasforma Roberto Amodio. Giuseppe Volpecina vive una stagione particolare: incide sotto rete, a dimostrare che a mancare è proprio lo stoccatore eccezionale. Il capocannoniere sarà De Stefanis, che arriva a quota undici. Non bastano, come qualche bugia che Giampaolo Montesano ci riserva ancora. Fino alla farsa di Cremona: tre reti per parte che destano più di un sospetto. Fatale il pari col Cesena, inutile la vittoria finale col Monza. Un punto in meno equivale al baratro. La classifica è cortissima: Atalanta, Como e Cremonese staccano il biglietto, ma senza impressionare più di tanto. Tra i Rosanero ed i Grigiorossi, giunti al terzo posto utile per il salto, il distacco è di undici punti: non sono molti. Pistoiese, Cavese ed il Catanzaro fanalino, ci fanno compagnia al piano più sotto. Io, piango a dirotto: negli anni ottanta, ne vedrò di tutti i colori. Gioie e dolori: non potrebbe essere altrimenti. La storia è scritta da quei colori: dolce e amaro. Scoprirò il senso della mia passione: nel calcio, la serie non conta. Anche dopo l’onta: non sarà nulla, al confronto di un incubo dietro l’angolo.
Dario Romano
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GIALLO E BIONDO

È la stagione 1984-1985, che precede l’annata della radiazione. Il fornitore tecnico è nr, lo sponsor ‘cucine juculano’. Valerio Majo lo vediamo spesso nelle formazioni schierate degli anni ’70 e ’80. Ha militato in Rosanero in due riprese: dal 1974 al 1978 (128 presenze e dieci reti) e dal 1983 fino al nefasto epilogo, con 84 apparizioni e due realizzazioni. Da sottolineare, nel mezzo, le stagioni in SERIE A con Napoli e Catanzaro. Quando torna in Sicilia, il giocatore vede meno la porta e meglio il campo. Ha chiuso la carriera nel Palermo, tornando nel 2002 come vice allenatore. La macchia della squalifica di tre anni, a seguito del coinvolgimento nel calcioscommesse, non oscura il suo ricordo. E quel ruolo di raccordo tra difesa e centrocampo, il rilancio preciso dell’azione, la sua visione di gioco e la chioma inconfondibile, che lo rendeva una spia ben accesa nell’arena pedatoria. Quando scatta l’allarme, è come un Big Bang e Big Ben dice stop: la punizione inflitta è dura da digerire e troppo lunga per ripartire. Il biondo rubacuori, nella foto, indossa una maglia gialla, per la gioia dei collezionisti. Da notare i bordi rosanero nel collo a ‘V’ e sulle maniche. Sullo sfondo, scorgiamo Conticelli, Maiellaro e Bigliardi al palleggio. Si distingue anche il secondo anello della Favorita, che verrà ricostruito per Italia ’90. Manca ancora meno per l’onta: quella della radiazione. La mia prima cicatrice da tifoso. ‘Che faccio, senza il Palermo!?’. Avevo tredici anni. Speravo che i miei eroi, Majo compreso, potessero fare qualcosa. Mi hanno tolto anche loro.
Dario Romano
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VENI VIDI…VICI?

La crescita, nel Treviso. Il debutto in SERIE A, potrebbe essere con la Beneamata, ma arriva con la maglia del Pescara. Poi il passaggio alla Reggiana, ed ecco la criniera. Con la Leonessa, arriva la conferma. Sembra proprio un leone, con quella zazzera che ne accentua la bella presenza. E le presenze fioccano, in mezzo al campo. Cinque stagioni ed ecco, finalmente, anche le reti: con il Brescia, si fa tredici. L’acquisto giusto: non ho alcun dubbio, quando lo vedo sgambettare con grazia e ardore. Tre campionati in Rosanero, per Gianni De Biasi, che si è fatto Aquila. Le sue apparizioni, si fermano a 105, con sette realizzazioni. Poi è radiazione, compreso lo scandalo. Il calcioscommesse gli costa un mese di squalifica, prima di riprendere al Vicenza. Chiuderà laddove aveva iniziato, al Treviso. Sono particolarmente legato al personaggio, che mi consolò in sala d’attesa, dall’ortopedico. Avevo il ginocchio in frantumi, lui aveva preso una botta: le lacrime sparirono in un istante. La vita continua, come dimostra il calcio stesso e lo stesso Gianni, che dopo aver appeso le scarpette al chiodo, si accomoda in panchina. Saltellando come fosse ancora a centrocampo, mettendola anche dentro. Da allenatore, la giusta gavetta, fino alle esperienze più rilevanti in massima serie, alla guida di Torino e Udinese. Fino a mettersi alla prova in un altro mondo: una prima toccata e fuga, poi è immersione totale, fuori confine. La LIGA spagnola con il Levante, ma è alla guida della Nazionale albanese che arriva il boom. Aiutato da una generazione senza precedenti (formatasi all’estero a causa dell’esodo dai Balcani), è riuscito a qualificare la ‘Nazionale A’ (il nome ufficiale della compagine) al CAMPIONATO EUROPEO PER NAZIONI, il primo in assoluto: ALBANIA mai presente, pure nella fase finale di un Mondiale. Tutto sommato non hanno sfigurato, ma era difficile fare di più (una vittoria e due sconfitte nella fase a gironi). Nell’agosto 2015 le Shqiponjat (Aquile) hanno raggiunto il 22° posto della graduatoria FIFA: un miracolo calcistico che De Biasi ha realizzato in appena cinque anni. Il resto, dimenticabile: dal Deportivo Alavés alla panca dei Milli, la Nazionale dell’AZERBAIGIAN. Ci vuole ben altro, per tornare al botto. Recentemente, prima dell’avvento di Hera Hora, il tecnico è stato accostato alla panchina del Palermo: l’uomo giusto al posto giusto? Ancora presto, ma io l’accendo. Dopo l’agognato salto, con una proprietà all’altezza, uno come De Biasi, che conosce l’ambiente, ama lavorare con i giovani e con a disposizione un progetto a lungo termine, potrebbe lasciare il segno. Nella foto, rivediamo la maglia a strisce verticali Rosanero con il mitico sponsor, VINI CORVO. Lo è, altrettanto, il fornitore tecnico della nr. Gli spalti della Favorita sullo sfondo, con il secondo anello in costruzione, a ribollire di passione. ‘Chiddici, Gianni…Veni?’
Dario Romano
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APRITI CIELO

Back row L-R: Ranieri, De Biasi, De Vitis, Pircher, Bigliardi, Biondo, Costa, Majo, Falcetta, Messina.
Front row L-R: Testa, Guerini, Barone, Conticelli, l’allenatore Rosati, Paleari, Cecilli, Piga, Maiellaro.
SERIE C-1, GIRONE B
2th / promosso in SERIE B
C’è tanto calcio, in questa foto che ritrae la rosa del Palermo edizione 1984-1985, con annessa promozione e tanta commozione. Una stagione da libro ‘Cuore’, conclusa positivamente sul campo per il valore della compagine, completa in ogni reparto, ma anche per la conduzione di un campionato emozionante, condito da scontri vissuti fino all’ultimo respiro. Tutto il negativo, accade durante e dopo il raggiungimento del traguardo: al tifoso Rosanero, non mancherà mai il doppio gusto del dolce e dell’amaro. Un torneo anomalo, dove a prevalere è l’equilibrio: si segna poco, si prevale spesso con il minimo scarto ed il risultato resta in bilico, per la ‘gioia’ delle coronarie proprie ed altrui. Alla fine, un bel sospiro di sollievo, con un primo posto a pari punti con il Catanzaro, che ci relega secondi in graduatoria per una differenza reti dove non c’è storia. Altissimo rendimento per Giuseppe Lorenzo, autore di diciotto marcature, supportato nel reparto avanzato dal ‘genietto di Fuorigrotta’ Gaetano Musella: tanta manna a disposizione per il loro allenatore, G.B. Fabbri. I calabresi raggiungono quota 54, mentre le altre, a stento, superano la trentina di realizzazioni. I Rosanero staccano il biglietto per la cadetteria anche grazie a questo aspetto. L’attacco non risulterà ‘monstre’ come quello della capolista, ma è di tutto rispetto: un referto aggiornato per 44 volte. Per la concorrenza, basta e avanza. A farne le spese, un Messina mai domo, che prevale al Celeste all’andata e cade in quella sorta di spareggio, deciso da Totò De Vitis, nel mese di Maggio. Vittoria decisiva in una Favorita stracolma, in un derby per giunta. Il Messina allenato da Franco Scoglio, con Carmelo Mancuso, Giuseppe Catalano e Totò Schillaci tra i protagonisti indiscussi. Quelli nostri, abbondano altrettanto. Racchiudono un pezzo di storia e non soltanto a tinte Rosanero. A partire da Claudio Ranieri, che le migliori soddisfazioni le ha raccolte dalla panca: quella che conta, compresa una favola difficile da dimenticare. Un Signore, da giocatore e da grande allenatore. Nella foto lo affianca, guarda caso, Gianni De Biasi. Che ai suoi nipoti, più che le favole, potrà narrare di belle avventure: ne sta accumulando, infatti, di diverse esperienze altrove. Più che altro all’estero, come un missionario: laddove il denaro, ancora, non la fa da padrone. Al suo fianco, ecco un giovincello dal futuro assicurato: Antonio De Vitis. Figlio di Gino, ex capitano del Lecce e padre di Alessandro, ora al Pisa. ‘Totò’ risulta decisivo, con otto reti e quel movimento continuo a togliere punti di riferimento ai difensori avversari. Crea spazio, dove si infilano che è un piacere gli altri avanti. Lo avrei voluto tenere, perché il talento di questo attaccante si era soltanto cominciato a vedere. Se lo gusteranno eccome, questo cannoniere abile nel gioco aereo: il suo volo parte dal sud e dalle serie minori e si conclude al nord, compresa la massima serie, dove dimostra di poterci stare. Fa molto meno male Hubert Pircher, il bidone. Inutile girarci intorno: un fallimento, il prescelto per sostituire nientemeno che Gianni De Rosa. E pensare che Enzo Bearzot ci aveva fatto più di un pensierino, per portarlo addirittura al Mundial di Spagna: da oggetto prezioso a misterioso. Come quel nome curioso: Tebaldo. Impossibile non pensare a lui, le poche volte che mi torna all’orecchio. Bigliardi inizia ed esplode col Palermo, forgiato a dovere nei primi passi dal boemo Zdenêk Zeman ai tempi delle giovanili. Attento e preciso, si fa baluardo, guadagnando la retroguardia e la ribalta del Napoli scudettato, innalzato in Paradiso da un Diego indemoniato. Sarà colonna dell’Atalanta, prima di un gradito ritorno che lo riporterà ancora a Bergamo. Il palermitano Rosario Biondo è soltanto all’inizio di una lunga carriera ricca di soddisfazioni. Un difensore arcigno, che da Mondello salpa con tanto orgoglio, affinando il bagaglio fino all’esordio nel calcio che conta. Al Via del mare, col Lecce, una sorta d’istituzione. Giovanni Costa ha poco spazio, ma lo sfrutta al meglio: è suo l’assist per De Vitis, nell’occasione del prezioso goal che vale una stagione. Le stagioni di Valerio Majo, invece, sembrano infinite. Il biondo centrocampista, riconoscibile nel terreno di gioco per la folta chioma dorata, c’è sempre: impossibile non scorgerlo nelle schierate tra gli anni settanta e ottanta. La stagione seguente, quando gli eventi divennero travolgenti, stupidamente pensavo che potesse fare qualcosa. Che innocenza: altro che cordata, la mia cavalleria immaginaria era guidata dal mio condottiero, il veterano Valerio. Passo al francobollo: proprio Franco, che di cognome fa Falcetta e che in campo si appiccicava e martellava come i marcatori di una volta. Gli restano poche apparizioni, dopo l’esperienza all’ombra del Pellegrino, dove sfiorerà il centinaio di oneste presenze tra i cadetti. Un capitolo a parte, se lo merita Gabriele Messina: la punta necessaria e imprescindibile, puntuale nello sradicare le difese avversarie. La mette quindici volte. Della serie: ma dove vai, se l’attaccante di categoria non ce l’hai. Passiamo ai seduti: da sinistra, troviamo Giuseppe Testa. Una capa inquieta, uno scugnizzo che, quando mette giudizio, mostra il bacio di un talento sopraffino. Il piccoletto è una valida alternativa del fantasista titolare, seduto dalla parte opposta. Giuseppe Guerini è il punto di riferimento, per un Palermo dove il connubio tra giovani di belle speranze e chiocce scafate funziona alla grande. Quella zazzera riccioluta e confusa, in mediana, si fa braccio e mente, giungendo spesso alla conclusione che gli vale la soddisfazione della rete personale, per otto volte in tre campionati. Tre come i tornei da reietto: sarà squalificato per il ‘Totonero-bis’. Ci riprova col Foggia, ma è poca cosa: appena sette presenze, vissute come una purificazione. Nuccio Barone lo ricordo sulla copertina di ‘Palermo Mio’, quello tascabile e con quel profumo inconfondibile. ‘Carboncino’ finisce coinvolto nel fattaccio, ma la punizione non lo sfiora più di tanto. Più che le scommesse, è proprio lui la scommessa. La trafila Rosanero, una marcatura, una promozione, la squalifica di cinque mesi e si riparte: alla grande. Con Zemanlandia, il Foggia infuoca il calcio dello Stivale e Barone si prende la sua parte. Uno spettacolo che non possiamo dimenticare, come le sue diciassette marcature tra i Satanelli. Tornerà, per una toccata e fuga, dopo una bella carriera da spendere ancora in Campania, per un centrocampista dal tocco fino che ricordo dalla parte sbagliata: con Pino Caramanno, Nuccio è nel campo avverso, in quello scontro diretto che ci vietò la doppia salita dopo la rinascita. Angelo Conticelli è riserva momentanea: un ruolo soltanto rimandato e già vissuto. Toccherà a Giacomo Violini, il ruolo di vice Paleari. Il baffuto guardiapali, per un centinaio di volte a difendere la nostre porta e le tante altre per quelle di un bel pezzo di Belpaese. Completini all’avanguardia, Franco ha quell’aspetto da esperto e furbo, come un estremo difensore deve essere. Una saracinesca, una sicurezza per il reparto e per gli ansiosi: la raccoglieva dal fondo della rete soltanto quando non c’era proprio nulla da fare. Un portiere da amare, presto protagonista tra i protagonisti di un grande Messina. A Lecce, preparatore d’eccezione al servizio di portieri eccezionali: per Paleari, davvero una vita tra i pali. Marco Cecilli non è un pesce fuor d’acqua, in questa rosa. Un lombardo tra tanti meridionali, che ha assaggiato il Mezzogiorno col Cosenza, ma ha speso gran parte della carriera nel nord d’Italia. Eppure appare sempre sorridente: accumula venticinque presenze in due stagioni per cuori forti, in tutti i sensi. Per il difensore, al Varese l’esperienza più longeva, al Bologna la pagina storta: è la prima retrocessione felsinea della storia. A Palermo vedrà di peggio, comunque sempre col quel sorriso ad accompagnare il mio ricordo. Mario Piga scrive una pagina indelebile ad Avellino: gli Irpini possono esultare per una storica promozione, grazie alla sua celebre realizzazione contro la Samp. Il goal sarebbe il suo pane, ma Mario è soprattutto la Torres. La Sardegna è la sua terra e proprio a Sassari Piga figura tra i Turritani più forti che il sottoscritto ricordi: mi venivano i brividi, quando si affrontava una squadra che annoverava tra le sue fila pure Massimiliano Favo e Gianfranco Zola. A farsela sotto, tuttavia, doveva essere più che altro il difensore di turno designato alla marcatura del famigerato: ovvero Pietro Maiellaro. Un funambolo, un mancato fuoriclasse perché nel calcio, a volte, ci manca quel poco che può fare la differenza. Pietro lo sa, che ne ha le possibilità. Viste a tratti anche dalle nostre parti, in due occasioni: quando torna, Maiellaro non è più un ragazzino, ma un giocatore che ne ha viste di tutti i colori, dopo aver fatto vedere i sorci verdi a diversi giocatori. Il meglio tra i Galletti in Puglia, tra cui spicca un goal da quaranta metri contro il Bologna, ma il repertorio è vasto: con i Viola, poco spazio, ma ha la fortuna di allenarsi con campioni veri e compagni di altissimo livello, da Batistuta a Borgonovo. I tifosi della Fiorentina non lo scorderanno, soprattutto quando, con la maglia del Cosenza addosso, come fosse Baggio salta mezza squadra gigliata, umiliata infine con una rete memorabile. Questo, il Maiellaro che ci ritroveremo: ancora forte, ma al prossimo canto del cigno, in un Palermo che sembrava fortissimo e finito soltanto dodicesimo. Niente male, quindi, la rosa della promozione che precede la radiazione. La pagina nera dell’annata si apre con l’omicidio di stampo mafioso del 23 Febbraio 1985. Il Presidente del Palermo Roberto Parisi è un imprenditore di successo, ma anche un uomo sfortunato: aveva perso la prima moglie e la figlia nell’assurda strage di Ustica. Gli subentra Salvatore Matta. Domenico ‘Tom’ Rosati è l’uomo giusto al posto giusto: scelto per il salto, riesce a compiere la missione prima di lasciarci per sempre. Una lunghissima carriera da allenatore, culminata con la promozione che aprì uno squarcio in un cielo che sembrava sempre più addensato da nuvole minacciose. Rosati è colpito da un male incurabile ad appena tre mesi dalla conclusione del campionato. Guardavo a quel pezzo di cielo che si era aperto speranzoso: un barlume di luce, negli anni difficili di una Palermo che finiva in prima pagina sempre per motivi tutt’altro che lusinghieri. Mi ero sbagliato di brutto: da quello squarcio, stava cadendo giù di tutto. Compreso il mio incubo, la mia maledizione: la maledetta radiazione.
Dario Romano
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BAFFO D’ORO

Quindici reti, per compiere la missione promozione. Il Palermo retrocesso punta forte alla pronta risalita ed ai giovani scalpitanti e talentuosi, affianca il bomber di categoria: una garanzia. Dalla Calabria con furore, arriva Gabriele. Salta all’occhio il baffo, d’oro come il malto: non per l’aspetto, ma di fatto. Non è la Moretti, ma la pur sempre schiumosa Messina. L’avversaria d’eccellenza è proprio la formazione peloritana, ma la differenza sta tutta nel nome della punta in maglia rosa. Sarà una coincidenza: ma in riva allo stretto, più che altro, una maledizione. Tre punti di distacco risultano troppo, dalla coppia Catanzaro e Palermo. Il gioco è fatto: il biglietto per il salto in alto è staccato a tempo debito. Decisivo, il virgulto buono per una stagione: Gabriele vanta trascorsi non indifferenti, tra tutti un’eliminazione a scapito della Juve in coppa. Con i Galletti baresi, Messina compie un’impresa: Fiorentina e Madama matate da una formazione di terza serie, giunta fino in semifinale. Per l’animale d’area, una gran scorpacciata: dodici marcature in campionato e sei nella competizione che da passeggiata divenne una cavalcata, quasi trionfale. Il Palermo ci vede bene e sceglie altrettanto: per il ritorno in cadetteria, il deludente Pircher non basta. In giro, non c’è di meglio ed il matrimonio va in porto. Ricordo con affetto, il centravanti con un po’ di pancetta ed il volto familiare: poliziotto, postino, autista. Gabriele Messina potrebbe essere chiunque. Invece, è un attaccante con i fiocchi: i numeri, lo certificano senza alcun dubbio. Il rodaggio col Crotone e l’affermazione a Trapani valgono una valigia sempre pronta. Una carriera curiosa e se non è record, poco ci manca: da Cava a Cosenza, ogni anno una partenza. Ed escludendo l’esperienza lombarda, la firma in calce è sempre quella: Gabriele, la mette che è un piacere. La regolarità è impressionante, nonostante le difese arcigne di moda a quei tempi. Nella foto lo vediamo al debutto, nel match d’esordio in campionato del Palermo: il teatro non è la Favorita in ristrutturazione, ma il Provinciale di Trapani. La maglia gialla, il Gronchi Rosanero: roba per collezionisti. Il team di Tom Rosati è una compagine ben strutturata, per la categoria: il racconto della stagione al fulmicotone lo trovate in questa stessa sede. Aggiungo il ricordo personale di un professionista serio, attaccato alla maglia anche se per un battito di ciglio. Messina era questo: l’uomo giusto al servizio del sodalizio. Ovunque è andato, ha lasciato il segno: anche il Lombardia. Perché chiude a Crema, col botto. Era questo il suo sassolino nella scarpa: prima di appenderle entrambe al chiodo.
Dario Romano
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PIETRO IL GRANDE

Un primo assaggio e ci prendi gusto. Stagione 1984-’85: nel Palermo di Tom Rosati, Pietro Maiellaro e Antonio De Vitis portano nuova linfa ad una squadra esperta, che sale in carrozza per la serie cadetta. Il fantasista è un giovanotto, ma guardate la foto: non teme nessuno. Sguardo torvo, ma è un attimo e ti uccella di brutto. La coppia pugliese contribuisce a suon di assist e reti e poi saluta: missione compiuta. Faranno strada, questo è sicuro. Per Pietro, il biglietto non è di sola andata: ci sarà un gradito ritorno. Quando mi invaghisco di un fuoriclasse, l’amore è a prima vista: nel caso di Maiellaro, ci avevo visto giusto. Fossi stato il solo: la classe non è acqua, ma sostanza. Che nel suo caso, abbonda. A colpirmi, la postura e le movenze. Sembrava un pezzo di legno, irrigidito quando al possesso palla. Poi partiva la danza, con quel tronco che iniziava ad ondeggiare come fosse a galla, ma in balìa delle onde. Uno spettacolo, impreziosito in seguito dall’esperienza accumulata nei campi caldi del meridione. Pietro, dopo il Palermo, riscalda i cuori degli avventori in quel di Taranto, dove inizia a far sul serio. Agli ordini di Mimmo Renna, i Rossoblù volano, sospinti dalle reti di Nicola D’Ottavio a dal piede destro, sempre più caldo, di Maiellaro. Che ha l’occasione di misurarsi nel campionato che ha conquistato per due volte consecutive. Farà coppia ancora con Antonio: De Vitis, dopo Palermo, è esploso a Salerno ed è solo l’inizio. Gli Ionici conquistano la promozione ed una salvezza sudata, con tanto di appendice felice: agli spareggi, la fanno franca. La palma, se la aggiudicano i trascinatori. L’attaccante arriva a diciotto marcature, mentre Pietro è ormai ‘il Grande’. Per lo Zar, è rivoluzione: da salvatore della patria a traditore, nel calcio, il passo è breve. Si può capire: perché il suo passaggio alla Bari è un colpo troppo basso. Il trasferimento è pagato a peso d’oro: supera i due miliardi di lire. Il giocatore è maturo per il salto in alto: quattro stagioni con i Galletti e la platea più consona al suo talento sopraffino. Son diverse, le perle, ad incastonare il genio racchiuso nel funambolo. Chi se lo è goduto dal vivo, non avrà mai dimenticato: quaranta metri possono bastare, per battere il malcapitato Gianluigi Valeriani, portiere del Bologna. La porta che si spalanca, è adesso quella dal colore Viola. Pietro è accolto a Firenze, ma non come il nuovo Messia. Di profeti, la rosa gigliata abbonda. Da Gabriel Omar Batistuta al compianto Stefano: con Borgonovo, l’intesa è perfetta, ma si contempla più nello spogliatoio che in campo. L’esperienza alla Fiorentina non è tuttavia sprecata: riguardo a Maiellaro, ho sempre pensato che la sua stella si sia come accodata, in un firmamento più luminoso del previsto. Poco male, le poesie si possono scrivere anche con la maglia del Venezia o del Cosenza. Il ‘Poeta 2’ (non si spodesta, sua eccellenza Claudio Sala) si divora mezza Viola tra i Lupi della Sila: una rete da antologia. E torna alla Favorita, fiore all’occhiello di uno squadrone che non avevo ancora visto, dalle nostre parti. Un fuoco di paglia: molto meglio il ‘Palermo dei picciotti’. Peccato che il vero Sasà Campilongo si sia visto soltanto a Via del mare, con la cinquina personale: la coppia prometteva faville. Ma Pietro incanta, come ai primi tempi: sfiora la doppia cifra, mostrando che il repertorio è ancora vasto. È anche il canto del cigno: che si concede nuvole e spiagge nel lontano Messico. Los Auriazules del Tigres UANL non se ne saranno accorti più di tanto. Quel nuovo arrivato, lo straniero sceso in campo per qualche scampolo, sembra proprio uno di loro. E lo sguardo torvo non tragga in inganno: è di un uomo fiero, che le ha prese dalle difese più attrezzate ed è giunto fin lì per volersi soltanto divertire. E perché no, monetizzare: se lo merita. ‘Il Maradona del Tavoliere’, forse, non avrà fatto in tempo, nel Nuovo Mondo, a guadagnarsi un altro soprannome. Chissà: da quelle parti, ci mettono poco. L’ennesimo: riservato ai più grandi. Come a Pietro: non a caso e non è da poco. Proprio il Grande.
Dario Romano
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THE NORMAL ONE

Con tutto il rispetto per il crucco, sia ben chiaro: Jürgen Klopp ci si definisce e in un libro così intitolato finisce. Per me, invece, la definizione si addice ad un altro Signore. Nella foto, un giovanotto cui il rosa sta tanto bene. Anche il giallorosso, gli ha sempre donato: sicuramente, la combinazione che senz’altro ha preferito. Le origini al Testaccio, il debutto con la Lupa, una carriera passata più che altro al Catanzaro. Otto anni in Calabria ne fanno il recordman di presenze nella massima serie con la Regina del Sud. Poi la Sicilia, fino alla punta: dello Stivale. Da Catania a Palermo: un bel salto, nel buio che più buio non si può. La parabola pedatoria di Claudio Ranieri si chiude con un termine che il tifoso Rosanero della mia generazione odierà per sempre: radiazione. Una punizione esemplare: per pochi, non per tutti. Nel calcio, come nella vita, son in tanti a farla franca. Io ricordo un difensore pulito negli interventi, che dei trucchetti del mestiere avrà fatto tesoro come tanti altri: se dello sporco c’è stato, non lo abbiamo visto. Anche questo è un merito: senza l’occhio indiscreto di una telecamera di troppo, il proibito non era semplicemente dietro l’angolo, ma dappertutto. Mi fido delle dichiarazioni di chi ha appeso le scarpette al chiodo da un bel pezzo: come il nostro, che dal momento fatidico indossa la tuta e comincia la scalata. Dopo la discesa, risale per il Belpaese nelle nuove vesti: parte da Lamezia Terme, la nuova avventura. Prosegue con la Campania Puteolana, una denominazione che rimanda al calcio che c’era una volta, fino all’approdo in Sardegna: questa, me la segno. Una promozione a discapito proprio del Palermo. Se tratteggiamo con i puntini il suo percorso iniziale da allenatore, ne esce un viaggio straordinario per un bel pezzo di Mediterraneo: ma Claudio non è Ulisse. Non va in guerra, non ha una Penelope ad aspettarlo e neanche la sua Itaca. Per la corona, è ancora presto. Non ha ancora smesso e son passati trentacinque anni: tranquilli, non ve li racconto mica tutti. Ma un po’ di pazienza: perché solo una sbirciata, sarebbe poca cosa. Saprebbe di affronto. L’approfondimento, invece, chiama a gran voce: nel momento che non è altro. Come una svolta: si chiama Valencia. Una sorta di pioniere: l’avvento di un italiano su una panchina straniera e per giunta spagnola. Ranieri aveva fatto molto bene alla Fiorentina: la riporta in massima serie e fa doppietta con coppa e supercoppa. Un segnale che viene ben accolto altrove: in Iberia, la conferma. La spunta in una finale senza storia: un tre a zero netto, che abbatte l’Atlético Madrid di Radomir Antić. Uno squadrone, Els Che. Che non vince altro per l’altissimo livello raggiunto da altre incomode: una su tutte, il Superdépor del decennio d’oro. Oltre, ovviamente, alle due solite note. Quella stonata, è l’etichetta: che arriva in fretta. Chi arriva dopo di lui, fa meglio: ed ecco il perdente di lusso. Indigesto, quando altri han goduto della sua tavola ben apparecchiata. La torta, arriva quando lui è già andato. Non è poco ed è ingiusto: sarà il tempo, a mettere le cose a posto. Ranieri non finirà come ‘el hombre vertical’: all’uomo tutto d’un pezzo cui non si abbina il trionfo. Héctor Cúper ha già perso una finale al cospetto della Lazio: al Mallorca, sfugge una coppa purtroppo cancellata dalla UEFA ed altrettanto mai dimenticata. Ma l’eterno secondo non è ancora nato: saranno Real e Bayern, a battezzarlo di brutto. In seguito, la Beneamata gli riserverà l’inevitabile scomunica. Claudio, al contrario, è ancora immacolato. Nonostante tutto, non si sente ancora quel dito puntato contro. Un giorno, anche dove ha fallito tornerà: per una ritoccata e fuga. Dopo l’annata disgraziata ai Colchoneros e quella voglia di cambiare aria che lo porta a Londra. Il Chelsea che gli tocca non ancora luccica: il lustro, ancora una volta, si materializza quando il Mister saluta. Sembrerebbe una maledizione: quando s’insedia lo Special One, Ranieri torna a casa. In tutti Sensi: c’è pure la Roma di Rosella, dopo aver ceduto alla corte di Madama. Subentra a Luciano Spalletti e salta all’occhio qualcosa di diverso: il tecnico è meno introverso, più battagliero. Sbotta, rispondendo a tono in sala stampa ai torti arbitrali, alle critiche maliziose. Vanta una collezione di panche altisonante, ma il piatto piange comunque. In bianconero e giallorosso, il colpo grosso resta ad un posto: quel gradino più in alto. In basso, ti ci spinge una pressione insostenibile: l’occasione da sfruttare è l’aria più salubre di un ambiente a misura d’uomo che, soprattutto, trasuda un altro calcio. Il club del Principato è scivolato a mal partito e per un Ranieri, questo è troppo. Al capezzale, ne arriva un altro: quello giusto. Son le prove, a miracol mostrare. Il Monaco risale dalla seconda serie al primo colpo e non è finita: mette tutte in fila, tranne la parigina ulteriormente arricchita. Che è ancora più forte dell’anno precedente: impossibile, fare meglio. Almeno, han sentito il fiato monegasco sul collo. Parlavo di Ulisse, del viaggio straordinario narrato da Omero: figurati se poteva mancare, la Grecia. Ebbene, c’è pure una Nazionale, nel curriculum di un allenatore che si appresta, finalmente, a vincere. Non in un torneo qualunque, non con lo squadrone di turno e nemmeno contro avversari di chissà quale basso rango. È la dorata PREMIER LEAGUE, la squadra è un ‘normale’ Leicester City e le avversarie si chiamano Manchester United e City, Tottenham ed Arsenal, staccato di ben dieci lunghezze. È stato un successo col botto: come se il destino avesse deciso di ripagare l’uomo, prima che lo sportivo, con tanto di interessi. Lui un po’ si sminuisce, attribuendo buona parte del trionfo a tutta una serie di fattori che nel football risultano spesso determinanti. L’ottima condizione fisica dei giocatori chiave, l’esplosione oltre ogni immaginazione degli stessi protagonisti, i risultati altalenanti delle avversarie, compresa la campione in carica: un Chelsea inguardabile. Ed il crederci anche quando i più scettici sembravano aver avuto ragione. Senza fare i conti col cuore, che ad un certo punto va oltre l’ostacolo. L’evento ci riporta ad un viaggio a ritroso nel tempo: il Verona di Osvaldo Bagnoli, la Samp di Vujadin Boškov. Quelle favole a lieto fine che sono anche il sale, del calcio. L’oltre, di un Davide che batte Golia: questo capita una volta ogni tanto, mica in un torneo così lungo. Il viaggio del romano, invece, continua. In Italia, in Francia, ancora in terra d’Albione. Alla ricerca di qualcosa che non deve essere, per forza, la vittoria. Quella più bella, il Mister l’ha vissuta sulla propria pelle. L’uomo, che di speciale ha proprio il suo essere normale, la riceve a gran voce. Perché non è una coppa, non ha le grandi orecchie. È un applauso spontaneo: all’Olimpico, quando il suo volto appare sul grande schermo. Parte la standing ovation e non può esserci niente di più bello, nel vederlo commosso. C’è proprio il Leicester, in campo, contro la Roma di Mourinho. Nell’immaginario di un collettivo che affolla la testa del portoghese, il buon Ranieri ha fatto parte della lunga schiera dei nemici: poca roba, qualche battuta. Il rumore è un’altra cosa. Idem il boato scaturito da un’impresa miracolosa. In Inghilterra, c’è un nuovo Re: che non sarà speciale, ma neanche un pirla. Altro che perdente. Da quella maglia a tinte Rosanero in poi, Claudio ne ha viste di tutti i colori. Daje e ridaje, ha sfornato l’ennesima favola che ci lega ad un mondo per eterni bambini. Ma questa è diversa dalle altre: è storia. E non è ancora finita.
Dario Romano
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LA RADIAZIONE

Back row L-R: Pellegrini, Benedetti, Sorbello, Bigliardi, Majo, Pintauro.
Front row L-R: Guerini, De Biasi, Ronco, Pallanch, Cecilli.
SERIE B
16st (Radiato a fine stagione)
Cordata. Quando sento questa parola, mi viene un groppo in gola. La sentii la prima volta quella maledetta estate. Probabilmente, senza lo scaturire di quegli eventi, io e la cordata avremmo rimandato la nostra conoscenza di un bel po’. In sintesi, un gruppo di imprenditori avrebbe dovuto formare una cordata per salvare il Palermo, travolto da una montagna di debiti. Poca roba, rispetto alle voragini dei club nei tempi moderni. Il tutto entro un termine ben preciso: altrimenti, si rischiava l’estromissione da tutti i campionati professionistici. Ed ecco un’altra parola sconosciuta: fidejussione, dalle banche con furore. Ma di che parlano? Hai tredici anni e non esiste Internet: le uniche fonti sono il ‘Giornale di Sicilia’ e le emittenti TV locali. Leggi e ascolti, ogni giorno. I due termini ti accompagnano, ti seguono, inesorabili. Mentre sei al mare, mentre giochi a pallone, mentre dovresti pensare ad altro, come ogni ragazzino. La cordata la immagini come la tua cavalleria, che speri arrivi al più presto possibile per spazzare via i timori e rimettere tutto a posto, come prima. Prima, quando il giornale lo leggevi per scoprire il nuovo arrivato in maglia Rosanero: di ‘colpi’ se ne parlava in cronaca nera, allora sempre in prima pagina. Svelato il nome dell’acquisto, partiva la caccia alla sua carriera: sull’Almanacco oppure sull’Album della Panini. Poi chiedevi a qualcuno se l’aveva visto giocare, allo stadio da avversario oppure grazie al tubo catodico. Quella voglia di parlare ‘di’ ed immaginare ‘il’ calcio. Invece si parla ‘della’ ed immagini ‘la’ benedetta cordata: l’arma definitiva che leverà finalmente di torno tutti i cattivi. Perché ce ne sono tanti, di cattivi, in questa storia: anche quelli che dovevano essere i buoni. Una storia senza lieto fine: finisce, anzi, proprio come si dice dalle nostre parti: ‘a schifiu’. La cordata è arrivata, ma non è bastata. Perché il mio Palermo sparisce lo stesso.
Dario Romano
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IL SIGNOR GOL

Il numero di PALERMO MIO, giunto al terzo anno, con l’articolo di buon augurio del compianto Sandro Ciotti. In copertina c’è Maurizio D’Este, soprannominato per l’occasione ‘Il signor GOL’. L’apelido è quello giusto e lo accendiamo. È l’anno della rinascita dopo la radiazione: la stagione 1987-1988, apparentemente di vacche magre. Non eravamo mai scesi così in basso: un giorno, vedremo di peggio, dopo il meglio del meglio. Ma questa ripartenza, è caratterizzata dal cuore Rosanero più grande che mai. Si resuscita dalla SERIE C-2, con una formazione di categoria superiore: un mantra da recitare a memoria. Pappalardo, Cracchiolo, Marsan, Marchetti, Bigotto, Di Carlo, D’Este, Manicone, Casale, Macrì e Nuccio. E poi Conticelli, Carrera, De Sensi, Pocetta, Sampino e Perfetto, con i giovani Pidatella, Carucci e Restuccia a completare la rosa. Si ripartiva da zero, non c’era la Primavera. Il tecnico di Piana degli Albanesi, Giuseppe Caramanno, è l’uomo giusto al posto giusto. Sarà anche l’uomo sbagliato nel posto sbagliato, che lo aspetta a Foggia: che disdetta. Ha a disposizione una corazzata: non sa ancora che a questa torta ben farcita si aggiungerà una ciliegina, gustosissima. La coppia d’attacco è fortissima: Claudio Casale ricorda un po’ Luca Cecconi (ma è più cecchino). Questo, però, ancora non lo sappiamo. Ed il palermitano Santino Nuccio è una scheggia impazzita che ci farà impazzire. La rovesciata allo scadere contro la Juve Stabia è una fotografia che non esiste: stampata lo stesso a memoria imperitura, finché dura. Ma dall’inizio del campionato, esplode il laziale d’eccezione: sarà la regola. D’Este inizia la carriera al Milan: dopo Rimini, Barletta e Livorno, inizia la sua avventura in maglia Rosanero. Ed è Boom. Mezzala, seconda punta, tornante: sfrutta gli spazi creati dalla coppia d’attacco più temuta e trova spesso la via della rete. Si infila dappertutto: non è un punto di riferimento per gli avversari, ma per noi diviene imprescindibile. A maggio, in amichevole alla Favorita, trafigge tre volte il povero Menzo, portiere dell’Ajax, in un 4-0 memorabile (la quarta rete è di Pocetta, su Youtube potete rifarvi gli occhi). Dodici le realizzazioni in campionato, una in meno del capocannoniere Casale. Sta per iniziare una nuova stagione e durante una gara estiva, a Trieste, spreca un’occasione colossale a pochi passi dalla porta: ‘in campionato questi errori non li farò’, dichiara. Ci penserà Auteri, a gonfiare le reti. Ma per il doppio salto, è mancato proprio il bomber di Anzio: Maurizio la mette soltanto due volte. Realizzerà altre tre marcature con la Torres, per poi chiudere nei dilettanti, al Frosinone. L’annata della rinascita: non la dimenticheremo mai. Non la dimenticherà soprattutto lui: il signor GOL.
Dario Romano
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IL SANTINO

Nemo propheta in patria. Locuzione latina che vuole indicare la difficoltà delle persone di emergere in ambienti a loro familiari, esclusa la città di Palermo. Da Tanino Troja ad Ignazio Arcoleo, da Gaetano Vasari ai vari Massimiliano Pisciotta, Ciccio Galeoto ed i fratelli Tedesco, fino a Nino La Gumina ed Hera Hora. Non a caso, il ‘Palermo dei picciotti‘ ha toccato i nostri cuori nel profondo. Alcuni ci hanno provato, rischiando di far venire giù uno stadio: mi riferisco a Giancarlo Ferrara, innescato da Topolino Tanino per il pari in extremis contro il Cesena. Santino Nuccio, ad esempio, con lo stadio pieno in ogni ordine di posto, finiva col farlo crollare per davvero. Tempo inclemente, pochi astanti: cosa si sono persi. La rovesciata perfetta, ai danni della Juve Stabia. La zona Cesarini per cuori forti. Il Palermo della rinascita è sostenuto dalle reti di Casale, D’Este e Nuccio. Presente anche per una promozione seguente, fallita per un niente. Un piccolo, grande attaccante, che non ha vissuto l’epoca dei social o dei Rosanero in SERIE A, ‘godendo’ di una popolarità limitata a coloro che amano questi colori per davvero. Ha fatto il suo e l’ha fatto bene: in silenzio. Mai una parola di troppo: ad urlare di gioia, ci pensavamo noi, grazie alle sue reti. A qualcuno può dar fastidio, ma quando a buttarla dentro è un tuo concittadino, il piacere è doppio. In più, leggevi la formazione e lo vedevi sempre in campo, il nostro Nuccio. Che ti faceva sentire più tranquillo: avevi il tuo profeta, nella tua patria. Tascabile come un Santino.
Dario Romano
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IL MANICO

È stato uno dei protagonisti indiscussi nel Palermo della rinascita. Un mediano di ruolo, ma non di quelli che ci passano la vita: Antonio Manicone era anche capace di verticalizzare l’azione, senza disdegnare la conclusione. Dopo le due stagioni in Rosanero, con tanto di promozione in SERIE C-1 e la doppia finale in COPPA ITALIA di categoria disputata e ahimè persa contro il Monza, il centrocampista si trasferisce al Foggia e da qui parte la scalata verso la SERIE A. Udinese, Inter (59 presenze ed una realizzazione in nerazzurro), una stagione in prestito al Genoa e poi il Perugia con annessa retrocessione in cadetteria ed il ritorno nelle serie minori, chiudendo in tre stagioni a Busto Arsizio col Pro Patria. Da segnalare anche la soddisfazione personale di una presenza in Nazionale nel 1993 contro l’ESTONIA. Chiusa la carriera, ha iniziato ad allenare con le giovanili del club meneghino e lo abbiamo rivisto con piacere agli Europei di Francia come vice-allenatore della SVIZZERA, al fianco di Vladimir Petković (è stato anche vice dello stesso alla Lazio e lo segue tutt’ora, al servizio dei Girondini del Bordeaux). Nelle due stagioni in maglia rosa (1987-1989), totalizza 65 presenze e quattro marcature. Ripartito dalla SERIE C-2, il Palermo vantava un settore nevralgico di tutto rispetto. Con lo stesso Manicone, troviamo Marchetti, Di Carlo (spesso utilizzato da centrale difensivo), Macrì, Pocetta quando non schierato sulla fascia e gli innesti di Butti e Cappellacci per la stagione dell’esilio a Trapani. Con il biondo a fare da manico in campo, quello giusto per il coltello dei Mister Pino Caramanno e Giorgio Rumignani. Antonio strappa il pallone dai piedi avversari e fa ripartire l’azione: la classica azione che da difensiva diviene offensiva. Merce rara, ieri come oggi, come lo stesso comportamento dentro e fuori dal campo. Mai un intervento scorretto, mai una parola di troppo. Questo, il ricordo di un professionista esemplare: la pedina giusta per ripartire, dopo una radiazione che brucia ancora. Ci si può identificare, negli elementi che compongono la squadra del cuore. Manicone mi ha restituito anche questo: la parte pulita di un mondo sporco, ormai svelato, al punto dal cominciare a non crederci più.
Dario Romano
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UN ALTRO MONDO

L’annata dell’esilio, con una promozione sfuggita per un soffio. Difese arcigne, mura ciclopiche che soltanto un Gigante può scavalcare. Undici colpi posson bastare, per scardinare le porte e rinnovare speranze: fino all’ultimo secondo. Quell’urlo di Guido, l’ultimo, che purtroppo non arriva. Segnava sempre lui: Gaetano Auteri. Prelevato dal Monza, l’avversaria che ci toglie la doppia soddisfazione: nella stagione della rinascita, l’unica delusione è riservata alla coppa di categoria, sfuggita all’ultimo atto. Forti i Brianzoli, che annoverano tra le loro fila anche un giovane attaccante dal futuro assicurato: Pierluigi Casiraghi, un predestinato. Il destino di Auteri, invece, è la maglia del Palermo. Un peccato, non averlo ammirato all’ombra del Pellegrino. Il suo teatro, sarà il Provinciale di Trapani: poco male, a conti fatti. Conti che tuttavia non tornano. La matematica non è un’opinione, quindi i numeri non possiamo metterli in discussione. Ma invitano ad una riflessione: il calcio è cambiato. Se più bello o più brutto, dipende dai punti di vista. Gusti personali differenti, ma convergenti su un unico accordo: il calcio di una volta, apparteneva proprio ad un altro mondo. Non mi riferisco allo spezzatino, ai completini macchiati, alle rose troppo ampie, all’invasione straniera. Su certi aspetti, preferisco non pronunciarmi: su altri, posso soltanto disperarmi. Ma resto ad interrogarmi sul valore dei numeri, che vanno pesati correttamente, anche in base al periodo storico preso in considerazione. In sintesi, ritornando ad Auteri: quanto valgono undici realizzazioni in un’intera stagione, se paragonate alle marcature di Matteo Brunori. Senza dimenticare Edoardo Soleri, che è a quota sette e potrebbe chiudere il torneo attuale in doppia cifra. L’attaccante in prestito dalla Juve è ad appena quattro marcature da quota venti: può raggiungerla eccome, considerando che mancano ancora una decina di gare da disputare. A partire dal nuovo secolo, Luca Toni ha ridefinito il concetto di attaccante prediletto: mi fermo al Rosanero, poiché ha continuato a metterla ovunque e comunque. Trenta marcature in cadetteria, venti nella massima serie: inarrivabile. E allora, perché le realizzazioni di un Auteri, sembravano così tante ed invece non lo erano affatto: questione di peso, spiccioli d’oro. Andando a rivedere i risultati prevalenti a quei tempi, salta subito un dato agli occhi. Occhiali spessi così, con reti bianche col ruolo preponderante. Si segnava poco, in un calcio caratterizzato dal catenaccio, dalla difesa e contropiede che nel Belpaese è stato dogma e manna per successi insperati. Oggi si potrebbe dire che ci ha guadagnato lo spettacolo: partite più avvincenti, spazi da aggredire come prede assetate di sangue. E così, i numeri che possiamo analizzare pure nelle serie maggiori, finiscono con l’impallidire. Lo score di Maradona, Platini o van Basten, al cospetto di un Immobile. Per non parlare della Pulce o di CR7: gli extraterrestri dei tempi moderni. No, Ciro non è più forte del Pibe, di Le Roi o del cigno di Utrecht. Ha soltanto a disposizione più verdi praterie. Quelle che, in tutte le categorie, erano più spelacchiate e affollate. Per questo lo ‘Special One di Floridia’, che in panchina si è creato il suo nuovo mondo, nel nostro che era ed è tornato piccolo, resterà sempre un Gigante. E chi si dimentica l’urlo di Monastra: amorevolmente assordante.
Dario Romano
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IL GENIETTO

‘Palermo-Casarano-4-1. Quattro reti di Musella: così, per inciso.’ La voce, è quella rassicurante di Paolo Valenti, che durante 90° Minuto ci comunica i risultati della SERIE C, GIRONE B. Il Palermo di Franco Liguori, al Provinciale di Trapani (la Favorita si sta facendo bella per l’imminente kermesse iridata), asfalta i malcapitati ospiti, grazie ad una prestazione da incorniciare del suo attaccante. All’anagrafe, Gaetano Musella: ma lo chiamavano ‘il genietto di Fuorigrotta’. Parte proprio da Napoli e dal Napoli, la sua parabola. Che tocca l’apice nella fase iniziale. Forse, troppo presto. Dopo il prestito in terza serie, al Padova, lo scugnizzo entra in scena al San Paolo. Dove ancora non hanno visto Maradona, ma il palato è fino già di suo. In attacco, spopola Claudio Pellegrini, capocannoniere dei Partenopei che vedremo al Palermo, nella disgraziata stagione 1985-1986. Quella che prelude alla radiazione, per intenderci. Una sola rete a referto, per l’ex Viola. Pellegrini porta il terzo di questo nome, ma sicuramente è una brutta copia dell’originale. Perché, dopo gli Azzurri, la punta, a cominciare da Firenze, ha sparato a salve. Musella, invece, le sue cartucce le ha ancora tutte da spendere: ci aggiunge anche i colpi ad effetto. Per questo, l’ho sempre reputato un fantasista, piuttosto che una seconda o mezza punta. Al Catanzaro, al Bologna: il talento è intatto. Lo score, però, a singhiozzo. Poco importa, poiché ti ci manda lo stesso, in porta. Piede destro raffinato, nel breve ti spiazza e sguscia, regalandoti quell’impressione che solo i campioni, sanno dare. Quando il pallone orbita dalle loro parti, sta per succedere qualcosa. E succede che dopo Nocerina ed Ischia Isolaverde, il folletto veste il Rosanero: luce per i nostri occhi. Ormai è un giocatore di categoria, ma in grado di fare quel che più conta: la differenza. Se in giornata di grazia, una sentenza. Come il 18/03/1990: chiedete al Casarano. Musella tocca quota undici, in una stagione da quinto posto e da secondo in coppa: contro la Lucchese, perdiamo ai rigori. Unica consolazione: il Palermo, almeno, torna a casa. Il capocannoniere, invece, saluta. Dispensa calcio ad Empoli, a Castellammare di Stabia. Con le Vespe, punge che è un piacere, come ai bei tempi. Lo scatto non è più lo stesso, ma la raffinatezza resta. Il Genio si concede un’ultima uscita a Latina, prima di intraprendere una nuova avventura. In Campania, da allenatore, le gira un po’ tutte. Puteolana, Sorrento, Casertana, Ercolanese. Poi Sanremese in Liguria e Campobasso, in Molise. Non è nulla di eccezionale, per Gaetano. Che il meglio lo ha dato in campo, dove avrebbe meritato uno scenario alla sua altezza. Quello del debutto, dove era iniziato tutto, è durato troppo poco. Ho sempre pensato che il dono del talento, se non sei proprio un fuoriclasse, possa raffinarsi. Allenarsi con altri campioni, carpirgli i segreti, i colpi da maestro. Chissà, con Diego a due passi, piuttosto che ad un passo, il tocco divino avrebbe fatto di Gaetano un mostro. Ma nessun rimpianto, per quello che poteva essere e non è stato. Tanto rammarico, invece, per come ci ha lasciato l’uomo. Con un alone di mistero. E con tanto di quel sapore amaro che si porta dietro. E allora, dal nero passo al rosa. Il dolce, me lo serve quella voce rassicurante: ‘quattro reti di Musella: così, per inciso.’
Dario Romano
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NOTTE MAGICA

& Roberto Baggio, JUVENTUS FC
È l’amichevole post Mondiale tra Palermo e Juventus, che permette ai palermitani di accogliere Totò Schillaci, reduce dalle ‘notti magiche’. In svantaggio per la rete di Faccini, gli ospiti ribalteranno il match sul 3-1. A segno proprio il palermitano del CEP nella prima frazione: nella ripresa, De Agostini la ribalta e Baggio la chiude. L’attaccante ex giallorosso Paolo Alberto, momentaneamente tra i Rosanero, realizzerà un’altra marcatura in COPPA ITALIA nella città natia di Verona, al Bentegodi, prima di lasciare la Sicilia per trasferirsi al Baracca Lugo: una meteora, nonostante il buon inizio nel precampionato. Sempre contro gli Scaligeri, era già andato a segno cinque anni addietro, da lupo irpino, nella stessa competizione. E dire che proprio l’Hellas era la sua squadra del cuore: anche nel calcio, a volte, non gli si comanda. Mentre la Juve è quella ‘champagne’ di Gigi Maifredi: solo che a brindare, spesso, ci finiranno gli avversari. Il settimo posto finale in campionato è indice di un progetto fallito, per una Vecchia Signora che voleva rifarsi il look, seguendo la moda spumeggiante del momento: la zona che ‘prima tremi e dopo vinci’. Chiddici? Per quanto riguarda il Palermo, da sottolineare l’avvicendamento tra Franco Liguori ed Enzo Ferrari in panchina: scelta saggia, che vale la promozione nella serie cadetta. Nella foto da urlo, Giacomo Modica si fa immortalare nel cerchio di centrocampo al fianco di Roberto Baggio: dietro, si distingue Roberto Biffi. Ad attirare l’attenzione è anche la maglia che indossano i padroni di casa: la casacca della ABM, che spacca di brutto. Quel giorno, alla Favorita impazzita, si tornò a respirare l’aria del calcio che conta. Il sottoscritto rimediò una storta: causa non una zolla, ma la folla tra Piazza De Gasperi e Viale del Fante. Non vidi un tombino ma, pur barcollante, potei ammirare, per la prima volta dal vivo, dei giocatori di alto livello. Su tutti, ovviamente, colui che sarà annoverato come il ‘Divin Codino’. Ma anche il nostro Giacomino non era niente male. Soltanto con l’avvento di Corini, ho visto un altro ‘Genio’ in campo, uscito dalla lampada come fosse una favola. Ma Modica non scherzava mica. Andate a rivederlo, facendo qualche ricerca in rete. Passo lento, compassato: ma un sinistro mozzafiato, chirurgico. Il numero dieci dispone del pallone a suo piacimento, facendo proprio ‘girare’ tutta la compagine. Preciso sui calci da fermo, regala assist al bacio e conclusioni a giro: il repertorio, è completo. Nativo di Mazara del Vallo, Modica debutta in Rosanero ben nove anni prima di questo appuntamento. Il giocatore che vediamo al fianco del fuoriclasse juventino, è ormai maturo come calciatore e come uomo. L’apice della carriera, che lo vedrà impegnato per gran parte della Sicilia. Tre le ‘scappatelle’: con Padova, Ancona e Ternana. Da giovane, pure un’annata in Campania, in prestito a Torre del Greco. Riconoscibilissimo in campo per la folta chioma stile anni ’70, il metronomo colpiva anche per la sua ‘presenza’. Un leader silenzioso, che incuteva timore e rispetto. Ha vissuto il calcio a tutto tondo, dal momento che ha intrapreso una lunga avventura, prima da vice allenatore e poi da collaboratore tecnico, fino a provarci in prima persona. Un girovagare per il sud, fino al recente salto in Piemonte: Modica, attualmente, siede sulla panchina del Casale, lo storico club fregiato di uno SCUDETTO nel lontano 1914. Con Novara, Pro Vercelli e Alessandria, i Nerostellati componevano il celebre ‘quadrilatero piemontese’. Se lo merita, Giacomo, un sincero in bocca al lupo. Non ha ‘assaggiato’ i campi della massima serie, come mi sarei aspettato vedendolo dettare il gioco da giocatore di categoria superiore. Ma ha dato luce in tempi di vacche magre, facendomi sentire più tranquillo, quando lo sapevo dalla nostra parte. Un po’ come si sentivano i tifosi delle squadre con Roberto Baggio, quando schierato nel loro undici, ovviamente. Un fuoriclasse assoluto, che abbiamo avuto la fortuna di vedere nel campo spelacchiato di una Favorita pur appena rinnovata per la kermesse iridata. In quella notte magica, in cerca degli occhi spiritati di Schillaci e dei colpi ad effetto di un presunto squadrone mai visto, brilla ancora il ricordo legato a Giacomo Modica: da pelle d’oca. Da tifoso, vado a ritroso e riscopro in lui, il mio primo genio incontrastato. Prima di sfregare la lampada, fino a toccare il cielo con un dito: grazie al mitico ‘Genio’. Quello per eccellenza.
Dario Romano
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QUELLA SPORCA DOZZINA

Back row L-R: Pappalardo, Favo, Bucciarelli, Paolucci, De Sensi.
Front row L-R: Cancelli, Biffi, Modica, Lunerti, Cotroneo, Pocetta.
SERIE C-1, GIRONE B
2th / promosso in SERIE B
Quando il gioco si fa duro, occorre che i duri comincino a giocare. C’è una rosa da sistemare, per realizzare il minimo sindacale. Una piazza come Palermo non può stare in terza serie. Succede: perché, a volte, al peggio non c’è fine. Dopo la rinascita, per compiere la missione, il Palermo di Giovanni Ferrara si affida ad una sporca dozzina: ovviamente, nel senso buono del termine. Guardate: quei volti scavati, concentrati su un unico obiettivo. Gente, qui non si passa: abbiamo fretta. A Franco Liguori si affida una truppa di prim’ordine. Il ritorno, innanzitutto, di Giacomino Modica, talento precoce in origine e adesso pronto e maturo al punto giusto. Un giocatore di altra categoria: per il terzo gradino del calcio nostrano, un lusso. Silvio Paolucci e Giorgio Lunerti rappresentano una garanzia: il primo serve ad allargare le maglie strette delle difese arroccate, il secondo per le stoccate. Un centurione, Giorgione: dalla Campania Puteolana arriva con furore e saranno reti, di quelle pesanti. La difesa è collaudata, con Roberto Biffi lancia in resta tra i vari Pietro De Sensi e Giampiero Pocetta terzini e Fabrizio Bucciarelli nel mezzo. Il centrocampo è in buoni piedi (Massimiliano Favo e Rocco Cotroneo mordono e rilanciano), l’attacco punge sulle fasce (alla opposta di Paolucci ci pensa Donato, ad aprire i Cancelli) e azzanna l’area col centravanti di turno. Se non c’è Giorgio, ecco Sandro. Cangini è un cavallo: a volte dal piccolo trotto, a volte purosangue. Se tirato a lucido, non conosce ostacolo. In regia, regna Sua Maestà: la mia ammirazione per Modica è così svelata. Una corazzata, questa schierata in salsa Rosanero degli ‘Angeli dalla faccia sporca’. Eppure, mai dare nulla per scontato, nel calcio. L’amichevole con la Juve è un omaggio a Totò Schillaci ed alle notti magiche. Paolo Alberto Faccini va a segno e poi al Baracca Lugo: la classica toccata e fuga. Un assaggio di Roberto Baggio, di un altro livello e mi accontento. Poi, ci si cala nella parte che ci tocca, ma l’atmosfera si fa cupa: questo Palermo, non ingrana. Strano, perché l’inizio non è male: Siracusa battuta alla Favorita e vittoria sul campetto del Nola. Ma è il Catanzaro a far scattare l’allarme: tre schiaffi seguiti dal pari a reti bianche in casa con la Torres. Per la dirigenza, occorre una scossa. Ed ecco il ritorno di Enzo Ferrari. Da giocatore, autore di una stagione, tra le altre, da incorniciare. Cambio al timone e si cambia marcia. Parte indenne dalla città del Palio un cavallino rampante, che ne vince cinque e pareggia anche a Perugia. Poi, cede al Cibali e riparte da par suo. Eppure, il finale del girone e l’inizio del ritorno fan gridare allo scandalo: vuoi vedere che lo squadrone si scioglie come neve al sole. Giusta, l’impressione, ma stavolta si fa quadrato e si rinuncia allo scossone: nonostante un rendimento altalenante, che rischia di mettere ancora tutto in discussione. La verità è questa: regna l’equilibrio. Puoi vincere o perdere contro chiunque e puoi arrivare in vetta come precipitare in fretta. Campania, Battipagliese, il Catanzaro penalizzato di tre punti fatali e la Torres non evitano il baratro, ma tra il Giarre salvo a quote trentadue ed il Casarano terzo a quaranta, contiamo soltanto otto punti di differenza. Dietro la capolista Casertana, la spunta proprio il Palermo. Che ha messo abbastanza fieno in cascina da resistere alle vacche magre. Dopo l’inopinata sconfitta di Battipaglia, che segue la disfatta di Caserta, bastano tre vittorie e cinque pari per staccare l’agognato biglietto per il torneo cadetto. Cinque anni di assenza, dal calcio che meno conta ma che da queste parti contava eccome. E due partite che ti restano nel cuore: il tre a zero al Catania ed il pari con l’Andria. In una Favorita stracolma e piena di gioia. Riguardo il derby di ritorno contro gli etnei, rifatevi pure gli occhi: c’è il Tubo, a racchiudere il ricordo. Di un agognato salto in alto e poi di un viaggio: nel tempo.
Dario Romano
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IL CENTURIONE

Questo signore era decisamente meglio vederlo in maglia Rosanero, che trovarselo contro. Lo sguardo truce, con il suo vitis, il bastone di legno di vite in dotazione ai centurioni, sempre pronto a colpire duro. Mille battaglie col cavallo di battaglia: la rete. I difensori di allora lo sanno: il loro incubo aveva il volto torvo di Giorgio Lunerti. I miei precedenti, avevano le fattezze alabardate di Franco De Falco e svariate di Gigi Marulla. Che dipartita assurda, la sua: stroncato da una bibita ghiacciata. Leggevi le formazioni avversarie e scorgendo il loro nome raccomandavi il Palermo a Santa Rosalia. Lo stesso timore reverenziale, mi attanagliava con Lunerti, che cala da San Benedetto e mette a ferro e fuoco il girone meridionale della SERIE C, con mantelli diversi ma con lo stesso monologo: quello del goal. Monopoli, Turris, Benevento, Reggina, Foggia e se più ne aveva di più la metteva. Strano vedere le effettive realizzazioni rispetto alla memoria: la fama è gloria. Quando, nell’estate del 1990, arriva in rosa proprio lui dalla Campania Puteolana, si capì che la promozione sarebbe stata alla portata. E così fu, nonostante un inizio di stagione al di sotto delle attese, con l’esonero di Liguori avvicendato da Ferrari. Undici reti e missione compiuta. Il bomber ha continuato a seminare il terrore nelle aree avversarie, collezionando maglie e marcature. Un attaccante di categoria con il marchio del goal addosso. Palla in area, tra una selva oscura per lui limpida e cristallina. All’improvviso, la sfera schizza, come in un flipper. Con quelle gambe a colpire come il legno: di vite. Ha segnato Giorgio. Per una volta, non mi faceva paura.
Dario Romano
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UN GIOCO SEMPLICE

Domenico Di Carlo arriva al Palermo nell’anno della rinascita. Resta per tre stagioni, lasciando i rosa per Vicenza: proprio in Veneto, arriveranno le maggiori soddisfazioni di una carriera onesta. Non solo una vita da mediano: c’è anche di più. Perché Mimmo, quando occorre, veste i panni del centrale. Lo abbiamo conosciuto così, nei campi polverosi della quarta e terza serie, compresi i terreni spelacchiati del Provinciale di Trapani e di una Favorita che si stava rifacendo il look: gli anni ottanta del nostro calcio, si chiudono con la rassegna iridata che ci riserverà le notti magiche. Ed un Palermo che ci prova, ma non ci riesce: per l’agognato ritorno in cadetteria, bisognava pazientare ancora un po’: giusto un annetto. Nativo di Cassino, in Provincia di Frosinone, Di Carlo si segnala per la correttezza, l’impegno profuso, il vizietto di qualche goal e quella parola che non è mai fuori posto. Un professionista esemplare, innamorato del pallone e di un mondo che continua a frequentare in prima fila: un posto in panca, non glielo si nega. Vent’anni al nord, senza un exploit e qualche flop di troppo: adesso è fermo, ma io ce lo vedo, al timone del Palermo. Dove adesso siede Silvio, che proprio a Mimmo, a bordo campo, ha riservato un bel calcione laddove non batte il sole e, per fortuna, meno duole. Incidenti di percorso: nel suo ruolo da giocatore, il laziale le avrà date e prese altrettanto. Silvio, invece, lo sa bene: per il fattaccio di quel giorno, non basterebbero neanche le scuse. Chiusa parentesi, si riapre il sipario. Nella foto, a portar palla non è un regista, ma un attaccante di quelli vecchio stampo. All’anagrafe, è Cangini Sandro. Un panzer come quelli belli di una volta: l’andamento è lento, ma che portento. Sarà che il calcio di una volta ti resta nelle ossa, ma con un centravanti così, mi son sentito sempre più tranquillo. L’area avversaria la voglio vedere messa a ferro e fuoco, con un carrarmato pronto a spaccare tutto. Il cross giusto e ci pensa il virgulto di turno. Cangini non va a referto spesso: tutt’altro. Undici reti in due stagioni fanno storcere il naso, più che strabuzzare gli occhi. Però mi si sloga la mascella, quando Massimiliano Favo chiude il triangolo e lo mette comodo comodo, a due passi da una porta difesa dal malcapitato portiere del malcapitato Catania di turno: che spettacolo e che boato. La sua annata d’oro era stata alla Vis Pesaro: in Sicilia, soltanto gli ultimi colpi di un certo rilievo. Sandro non avrà mai dimenticato la sensazione del Rosanero addosso. In un periodo dove il calcio era diverso e bastava poco, per affezionarsi ad un giocatore che non avrà reso come aspettato, ma che qualche gioia ti ha lo stesso regalato. Negli anni del tiki taka, delle squadre racchiuse in un fazzoletto, della corsa prima di tutto ed al diavolo tutto il resto, mi resta questo scatto. A ricordarci come il calcio, in fondo in fondo, è e soprattutto era un gioco semplice. Johan Cruijff chiude il concetto da lui espresso in prima battuta e spesso rispolverato a buon proposito, aggiungendo un piccolo dettaglio: che ‘giocare un calcio semplice è la cosa più difficile.’ In effetti, che ci vuole. Sei un mediano, vedi che il centravanti porta palla. Potresti restare a guardare cosa succede, se è il caso devi farti trovare pronto a coprire. Ed invece, Mimmo prende fiato e scatta, come una molla. Sta esercitando la massima espressione che il ‘Profeta del goal’ ci ha lasciato in eredità: il Calcio totale. Tutti che sanno fare tutto. La cosiddetta sovrapposizione creerà superiorità numerica, spazio per sé o per il compagno. Che potrà liberarsi più facilmente al tiro o scegliere l’assist. Questa è mentalità offensiva, vincente. La summa, potete rivederla a ben altri livelli in quel di Upton Park, tempio purtroppo demolito degli Hammers. Dove il Palermo di Francesco Guidolin espugna il salotto londinese del West Ham United con una rete dell’Airone, Andrea Caracciolo. Fábio Simplício soffia di forza il pallone a Benayoun, serve Aimo Diana che scambia con Mattia Cassani. Il terzino si è appunto sovrapposto: ha tolto un probabile controllore al compagno, che adesso è libero per metterla ‘in the box’, proprio come dicono da quelle parti. La sovrapposizione dell’esterno, nell’evolversi dell’azione, è stata determinante. Quel goal è anche frutto del caso, ma di uno schema studiato, figlio della mentalità vincente inculcata da un allenatore che lo era altrettanto. Vedere per credere: in fondo, è così facile. Come giocare a calcio: come ci insegnano Sandro e Mimmo in uno scatto che, ormai, ha fatto i suoi trent’anni. Ma trasuda ancora di calcio: quello semplice. Il più difficile.
Dario Romano
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LEONI, AGNELLI E DEMONI

Back row L-R: Taglialatela, Biffi, Centofanti, Fragliasso, Paolucci.
Front row L-R: De Sensi, Lunerti, Valentini, Bresciani, Strappa, Pocetta.
SERIE B
18th / retrocesso in SERIE C
Leoni alla Favorita. Ma, più che agnelli, pecorelle smarrite in trasferta. Una squadra che tra le mura amiche non ne perde una, con le grandi del torneo che solo a sentire Palermo, non sanno a che santo votarsi. Fuori, soltanto cinque pareggi. Felice Centofanti che porta scompiglio e spacca le partite, Antonio Rizzolo in stato di grazia, fino alla disgrazia finale. Una classifica avulsa che puzza di bruciato e la notizia che non ti aspetti, da strapparti i capelli. Perché, dal mese di Maggio, a bruciare è la città e da lontano la sensazione di impotenza ti assale, ti pervade, ti uccide dentro. Fino a quel maledetto Luglio che chiude il cerchio del male: dentro, ci siamo tutti noi. I demoni, sono dappertutto. Stato, politica, mafia, sport: il nero che avvolge la Conca d’Oro.
Da sottolineare che non si tratta della formazione titolare. Lo sponsor sarà della sèleco.
Dario Romano
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IL MESSIA

Compri il Giornale di Sicilia ed ecco la notizia: dal Nola arriva il terzino sinistro, Felice Centofanti. Nome e cognome destano curiosità, ma sarà all’altezza? Poi lo vedi finalmente in campo, perché allora dovevi proprio andarci, allo stadio, per vedere le partite e capisci che non solo abbiamo il terzino: abbiamo l’ala, il fantasista, all’occorrenza punta. Ma anche un’arma letale sulle punizioni. Un Messia in Rosanero, certificato dall’aspetto che non ti fa pensare ad altro. Fa pure i miracoli, aprendo le difese avversarie come Mosè con le acque. Ventotto presenze ed otto reti: altro che terzino. Ma il Palermo della stagione 1991-1992, leone in casa ed agnello fuori, non è mica Lazzaro e con il contributo dall’alto (o dal basso, fate voi) arriva la sentenza della retrocessione. Che non lo coinvolge, visto che lui, giustamente, nel baratro non ci scende. Anzi, arriva nell’Olimpo della SERIE A, ma il suo Eden resta il mondo rosa. Come Cristo ad Eboli, Felice si è fermato a Palermo. Poi, dal tubo catodico, Centofanti li sistema tutti quanti.
Dario Romano
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DR. JEKYLL E MR. HYDE

Un tiro al volo, col destro. Il San Paolo di sasso, ammutolito. In vantaggio dal primo tempo con Carnevale, i Partenopei si devono accontentare. Sprecano e scoprono che, a volte, anche Maradona non basta. Per la Lazio in maglia gialla, basta un cambio: fuori Di Canio, dentro un giovane virgulto. Materazzi ci ha visto giusto: vale il pareggio. L’autore della perla non mi è nuovo: a quel tempo, li divoravo, gli almanacchi. A colpirmi, è l’esecuzione: lo spiovente da sinistra e quel gesto tecnico dove c’è tutto. Coordinazione, determinazione, quel pizzico di fortuna che non guasta e una bandiera che non si alza. Questo me lo segno: chissà, se lo prende il Palermo. I sogni son desideri che si possono realizzare, anche al tempo delle vacche magre. Quando arriva l’annuncio, gongolo: arriva Antonio. Cui è legato un ricordo tra i più amari in assoluto, per i tifosi del dolce col retrogusto. La stagione maledetta, con quella retrocessione assurda e ingiusta, sancita dalla classifica avulsa. Poi le stragi: passa tutto in secondo piano. Torno al preludio, di un’annata tutt’altro che rosea: per la città, per i Rosanero. Neri sono pure i capelli del nuovo arrivato. Volto pulito, educato e timido: tutto il contrario del nuovo Messia. Felice Centofanti e allo stadio tutti quanti. E certo, perché in casa non si sgarra: soprattutto, non si passa. Il problema è fuori: neanche una vittoria. Il Palermo double face della stagione lo abbiamo analizzato a dovere. Non vale la pena, ripetersi. Ma su Antonio Rizzolo, impossibile non esprimersi. Faccia d’angelo, tutt’altro che sporca, come gli argentini d’antan. E questo che dovrebbe fare, mica la guerra. Beh, state a guardare, nella Favorita che si fa bolgia. Perché negli spogliatoi ci entra come Antonio, ma in campo ci va Rizzolo: come DR. Jekyll e Mr. Hyde. Un portento ed un avvertimento: chi cala in Sicilia, se la fa sotto. Le domande si sprecano, per gli avversari: come intendete fermarlo. Missione impossibile. A colpirmi, lo stesso dettaglio di quel tiro al volo che colpì il San Paolo e me come un fulmine. Altro che timido: Antonio ha lo zampino del Diavolo. Quando calcia lo fa con cattiveria, come volesse aggiungere l’ineluttabile ad una sentenza già scritta. Poi torna docile, con i piedi per terra, come tutto il Palermo. Il Palermo dei leoni e degli agnelli. L’attaccante parte per via del Mare, non può scendere in terza serie. Torna non appena ritorna la cadetteria. Il goal ancora nel sangue, ma cambiano i volti, le gerarchie: anche i progetti, pur se improvvisati. Nasce il Palermo dei picciotti, mentre Antonio paga dazio ed esce spesso malconcio. Ignazio non lo vede più di tanto: fa le valigie, il preludio ad un lungo peregrinare. E cosa mi fa più male: così preso da quel sogno inatteso, non ci avevo fatto neanche caso. Il tempo è tiranno, nel calcio ancora peggio. Ci si dimentica in fretta, anche della manna, quando tutto gira dalla parte giusta. Con i dolori, ecco invece rimpianti e paragoni. Ne abbiamo visti, fior di campioni, ma credetemi: quel fuoco addosso, al momento del fatidico calcio, non l’ho più visto. Del resto, non è da tutti: trasformarsi negli spogliatoi, lontano da occhi indiscreti, prima di scendere in campo. Da angelo a demonio: per Antonio Rizzolo, era un attimo.
Dario Romano
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DUE CAPITANI PER UNA COPPA

Il capitano Massimiliano Favo passa la COPPA ITALIA DI SERIE C al capitano per eccellenza Roberto Biffi. È il 13/06/1993: dopo la vittoria in terra lariana (uno 0–2 sancito dalle reti nella ripresa di Buoncammino e Cecconi), i Rosanero di Angelo Orazi impattano, con il punteggio di una rete per parte, nel ritorno alla Favorita contro il Como e si aggiudicano, finalmente, la tanto ambita coppa, seppur di categoria. La rete della sicurezza è siglata da Battaglia a venti dalla fine. Una chimera a lungo inseguita, dopo tre finali perse che ci riportano alla maledizione del trofeo maggiore. Scippato dal Bologna (e lasciamo perdere le eventuali colpe di Ignazio Arcoleo: gli scomparsi Giacomo Bulgarelli ed il famigerato arbitro Sergio Gonella hanno ammesso in seguito che quel rigore è stato un abbaglio), ‘rubato’, sportivamente scrivendo, dalla Juve e perso ‘meritatamente’ contro l’Inter. Con tanto di rabbia nel vedere un motivatissimo Fabrizio Miccoli purtroppo relegato in panchina e regalato ai Nerazzurri. Delio, Delio. Ma la Macumba della coppa non si esaurisce, neanche se si vince. Scomparsa, riapparsa: finirà in prestito, perché legalmente non ci appartiene. Qualcuno dirà che i cimeli del Palermo son poca cosa. Ovviamente, se paragonati ai grandi club del calcio, non possiamo proprio dargli torto. Ma rappresentano pur sempre la nostra storia e, credetemi, in più di centoventi anni la roba abbonda. Torre lato curva Nord o Mondello che dir si voglia, per intenderci. Si poteva dare una sbirciata: ed ecco la stanza dei tesori. Del resto, pensate alla dimora di uno sportivo qualunque, anche se praticante soltanto a livello amatoriale. Paragonate l’eventuale raccolta di riconoscimenti, omaggi e passa di un sodalizio tra i più antichi in assoluto. Non ci entrerebbero neanche, nel museo recentemente inaugurato. I più preziosi, arricchiscono le collezioni private. Il Sacro Graal sarebbe la LIPTON CUP: probabilmente fusa, irrimediabilmente persa. Eppure, non si può mai sapere. Il Genoa si è riappropriato del suo premio, quello del primo campionato riconosciuto del Belpaese, aggiudicato nel lontano 1898 e donato dal Duca degli Abruzzi. Ritrovato recentemente oltreoceano e autenticato, è tornato a casa. Mai dire mai. Riguardo la coppa che i nostri capitani levano al cielo, ne rimane un ricordo immortalato e la notizia che ci lasciò tutti a bocca aperta. Bastavano pochi spiccioli. Caro Dario, questa proprio non l’ho mandata giù. Oro, incenso e Mirri.
Dario Romano
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ORGOGLIO E PREGIUDIZIO

All’inizio, resto perplesso: ha la meglio il pregiudizio. Scontato, quando il salvatore della patria giunge dal Catania. Come volevasi dimostrare: non fece bene, al suo primo anno in Rosanero. Si tratta della stagione anomala 1991-1992, con il Palermo imbattuto e fortissimo in casa, ma altrettanto ‘capace’ di ottenere soltanto cinque pareggi in trasferta. Ci costò la retrocessione, causata anche da ben altri fattori. La risalita fu immediata: Luca Cecconi, con Sasà Buoncammino, formava una coppia d’attacco ben assortita e realizzò quattordici reti , sempre di splendida fattura. Dalla Toscana con furore, per un furetto che, tra Fiorentina ed Empoli, ha già fatto vedere, di che pasta è fatto. Con il Pisa, ed un po’ meno con gli Etnei, lo score s’inceppa, ma i colpi restano in canna. Perché c’è un dato di fatto: se non la mette, almeno rende. Per questo si scommette su di lui: e risalita fu. Un buon rendimento, in Sicilia, che gli vale la chance al Bologna. Con i Felsinei, Cecconi totalizza venticinque reti in due anni. Fece la differenza soprattutto al Como, con quarantuno marcature spalmate in due tornei. Gli ultimi fuochi, per un personaggio che non le mandava di certo a dire. Nel calcio, le parole di troppo pesano, più dei goals. Negli anni ’90, più che oggi. E così, il cecchino finisce sotto tiro e paga dazio, come successo in terra lariana ed alla prima, vera esperienza da allenatore, sulla panca del Prato. Contro Enrico Preziosi, contro il gruppo. Non mi sorprende più di tanto e non credo ne abbia fatto li suo cruccio. Luca lo sa, che l’orgoglio è un’arma a doppio taglio. Credi di avere il manico dalla tua parte ed invece ti becchi la lama. E anche la mia stima. Apprezzo chi sfoga la rabbia in campo. Soprattutto se in cerca del riscatto: missione compiuta. Non era impossibile: a tratti, Cecconi si è preso la scena. Mi piacevano i suoi movimenti, il suo incedere quasi robotico e l’eleganza nelle conclusioni. Fisico compatto, non un gigante. Ma con una dote in particolare, tra le altre: un’elevazione sorprendente. Fosse solo quello: bisognerebbe rivederlo, per capire l’aggettivo giusto che possa definirlo. Pulito e sporco all’occorrenza, svogliato o indemoniato come si è mostrato. Una maturazione lenta, giunta all’apice quando si era fatto troppo tardi. Cervello e piedi fini, ha dato il meglio di sé proprio a fine carriera ed è un peccato, perché avrebbe potuto essere protagonista in ben altri palcoscenici. Oltre la promozione, ha vinto la COPPA ITALIA DI SERIE C, con quella banda ben organizzata da Angelo Orazi. Quel trofeo alzato al cielo dal nostro capitano, Massimiliano Favo: proprio contro il Como. E qui, si chiude il cerchio. Con qualche sbavatura ma, ai miei occhi, come realizzato da Giotto: semplicemente, perfetto.
Dario Romano
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‘COME HAI FATTO!?’

Back row L-R: Brambati, Taccola, Ferrara, Biffi, Mareggini.
Front row L-R: Maiellaro, Battaglia, Caterino, Pisciotta, Iachini, Campilongo.
COPPA ITALIA, Secondo turno
San Siro, 31/08/1994: Milan-Palermo-0-1
Ad un certo punto, nella storia rossonera, alla sconfitta col Palermo ci si farà il callo. Era già successo, ma soltanto all’ombra del Pellegrino. Tra le altre, quando lo sciagurato Egidio riserva al Diavolo l’ennesima amarezza. A San Siro o Meazza che dir si voglia, la prima volta si materializza in una serata di fine estate. L’eccezione si farà regola, ma la fantascienza è ancora materia sconosciuta al tifoso Rosanero. Quando si espugna la ‘Scala del calcio’, il racconto è più che altro biblico: succede che Davide abbatte Golia. Una sensazione non per tutti: riservata a chi non tiene per le grandi. Al primo turno, il Palermo è maramaldo: si espugna del Ravenna il campo. Giallorossi in vantaggio con Antonioli dopo un quarto d’ora nella ripresa, risponde Massimo Cicconi e sentenzia Roberto Biffi nel finale. Un buon segnale, ma a Milano basterebbe uscire a testa alta: non è mica una prova del nove. La formazione che Gaetano Salvemini manda apparentemente allo sbaraglio non è niente male: questo, è un Palermo che fa sognare, almeno sulla carta. Ma di spuntarla col Milan in trasferta non se ne parla. Mi accontenterei di un pareggio, di una sconfitta di misura. Per aggiungere un po’ di sale al previsto match di ritorno: non mancheranno anche pepe e peperoncino. L’undici ospite spicca, sul terreno di gioco: perché il completino della ABM è quasi tutto bianco. Il nuovo arrivato a difendere i pali, Gianmatteo Mareggini, sceglie invece il giallo. Il reparto difensivo è composto da tre centrali: alla coppia ben collaudata da Ciro Ferrara e capitan Biffi, si aggiunge Mirko Taccola. La novità rappresentata da Massimo Brambati si esprimerà a destra, anche se è più lecito aspettarselo maggiormente in copertura che all’avventura. Giovanni Caterino farà da supporto sul lato sinistro in entrambe le fasi, mentre a centrocampo Beppe Iachini farà da chioccia a Masino Pisciotta: tra un tackle e l’altro, farà molto più del previsto. L’inventiva è tutta nei piedi di Lorenzo Battaglia e Pietro Maiellaro: il ritorno dello Zar è gradito, ma l’occhio di riguardo è tutto per Sasà Campilongo. Il vero botto di un mercato succulento, come non si era mai visto. Fabio Capello, per il secondo turno di coppa, pensa all’ordinaria amministrazione, ma non schiera un Milan dimesso più di tanto. Ielpo in porta, Galli e Costacurta centrali, Tassotti e Panucci terzini. Il centrocampo è inedito: Sordo e Donadoni sulle fasce, Albertini in mediana e Gullit a briglia sciolta. Il tulipano fa da spola e da supporto ai due avanti: Simone, autore di una stagione da incorniciare e Lentini. Questi è un’ombra, dopo il recente incidente. Io penso ancora a quel cappotto rimediato in un’amichevole precampionato: ferite ancora aperte che non ho smesso di leccare. Otto reti a domicilio, con il trio olandese in gran spolvero. Rijkaard è ora all’AJAX, mentre il Cigno di Utrecht è al canto: Marco van Basten sta soffrendo le pene dell’inferno. Ruud è tornato, ma l’esperienza alla Samp non è ancora finita: la sua, sarà una ritoccata e fuga. A gara iniziata, lo spartito non sembra riservare sorprese: padroni di casa all’attacco e Palermo chiuso a riccio. Quando la barricata cede, Gullit la cicca o prende la traversa, mentre Panucci alla trave fa la barba: il Diavolo impreca, perde smalto e le Aquile ci credono. Quindi, il volo. Quarantaduesimo: corner sul fronte sinistro d’attacco, dalle parti di Ielpo. Battaglia e Maiellaro scambiano corto, poi Lorenzo guarda in mezzo e calcia teso un pallone velenoso. Lo è altrettanto l’esito: in un’area affollata di marcantoni, la spunta Iachini. A due passi dal dischetto, l’impatto: la sfera tocca terra a mezzo metro dalla linea di porta e riprende la sua corsa ineluttabile. Nulla da fare per l’estremo difensore: è destinata all’angolo. ‘Ma come hai fatto!? Come ci sei riuscito!?’ Biffi racconta il tormentone che precede il match di ritorno. Ma Beppe non è il solo, a lasciare il segno: nel secondo tempo, lo spreco di Pietro. Zar, come hai fatto, a tu per tu con Ielpo. Temo la legge del goal sbagliato, goal subito: ma per fortuna entra in scena Gianmatteo. Non ruberà l’occhio, ma a San Siro è perfetto: il portiere si esibisce da par suo su Tassotti e Stroppa. Che farà pari e patta in una Favorita fatta bolgia. L’amaro in bocca, a vederlo svettare e colpire, anche lui, di testa. Poi, sempre loro: la maledizione degli anni novanta. Dagli Azzurri ai Rosanero, il trionfo non è ad un passo: dista undici metri. Quegli odiati, maledetti rigori.
Dario Romano
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UNA SQUADRA FORTISSIMI

Back row L-R: Biffi, Ferrara, Mareggini, Taccola, Fiorin.
Front row L-R: Battaglia, Cicconi, Campilongo, Iachini, Caterino, Maiellaro.
SERIE B
12st
Almeno, lo sembrava. Il Palermo di Polizzi e Ferrara tenta il salto, ma più lungo della gamba. Tanta manna, non l’avevo mai vista. Gaetano Salvemini tiene le redini di una squadra che ha guidato alla salvezza per il rotto della cuffia. La punizione di Roberto Biffi è una bomba che abbatte il Monza e scaccia fantasmi e streghe. Per volare, ecco un’astronave: con tanto di extraterrestri. Arriva dal Bari Massimo Brambati: ha una discreta esperienza, accumulata tra le fila di Torino, Empoli e Galletti stessi. Difensore arcigno e rubacuori incallito, all’ombra del Pellegrino inizia soltanto l’inesorabile declino. Mirko Taccola da Lucca è un buon innesto: in difesa, con lo stesso Biffi, Ciro Ferrara e Fabrizio Bucciarelli, siamo ben messi. La coperta ampia, ma la porta apparentemente spalancata: Gianmatteo Mareggini non ruba l’occhio e ce ne facciamo una ragione. Beppe Iachini sarà leggenda: espugna San Siro in coppa, segna alla prima contro l’Andria. Non è un fuoco e neanche un cane di paglia: sono i primi ruggiti di un leone. Innamorato del gol di Valeriano: una perla al volo contro i Reds e Fiorin è ancora Rosanero. Tra le linee, il ritorno di Pietro Maiellaro: con Totò De Vitis, formò una bella coppia d’attacco, talentuosa e giovane. Fu promozione. Adesso, è più esperto e può innescare un vero e proprio animale: dell’area di rigore. Da Sasà Buoncammino a Sasà Campilongo, il passo è da categoria ed il goal una garanzia: forse. Dovrebbe essere lo stesso per Antonio Criniti, ma chiddici. Dalla Sardegna, poca voglia e scarsa pazienza, per un giocatore che ha appeso presto il potenziale, molto prima degli scarpini, al chiodo. C’è ancora Antonio Rizzolo, ma ci sono anche dei bei giovani palermitani, scalpitanti a bordo campo. La loro attesa, ci ripagherà con gli interessi. Ad autunno, l’ultimo tassello: Gianluca Petrachi dal Venezia. Può sfondare a destra, come Giovanni Caterino a sinistra. Le cessioni di Lorenzo Battaglia e Massimo Cicconi (presenti nella foto), ‘sembrano’ poca cosa. E la squadra fortissima è completa.
Don Fabio ha un Diavolo per Capello, ma la spunta in una Favorita stracolma. Stroppa pareggia i conti aperti da Iachini e inizia un’altra partita, infinita. Dopo le cocenti delusioni in Nazionale, tra la Lucchese ed il Milan, giungo all’ovvia conclusione: odierò per sempre i maledetti rigori ed i colori Rossoneri. La novità della stagione sono i tre punti a vittoria: dobbiamo attendere, per gustarla. Maiellaro apre e chiude contro l’Ascoli alla quinta giornata. Il Palermo ha una rosa ampia ma spuntata: i numeri parlano chiaro. Le due reti del fantasista, con quella di Iachini alla prima, fanno appena tre in sette gare. Poi, un segnale: al Via del Mare, il Lecce naufraga. Che imbarcata: 1–7 e Campilongo fa manita e notizia. Finisce pure sui telegiornali nazionali. Non è la svolta, ma solo una giornata storta, dei Salentini. La porta resta ancora un miraggio, mentre è chiaro che occorre il salvataggio. Giampiero Vitali prova la scossa e rispolvera un redivivo Rizzolo: Sasà s’è di nuovo inceppato. Risultato!? Dodicesimo posto, la zona retrocessione lontana di tre sole lunghezze, le casse vuote. Io!? Mi ero sbagliato e non avevo ancora finito. Contento per l’arrivo di Ignazio Arcoleo, che dopo averci fatto più volte l’amore, con il Palermo, finalmente passa al matrimonio. Felice per l’ingaggio della versione nostrana di Speedy Gonzales: infatti, i filmati di ‘Topolino’ Tanino Vasari sembravano accelerati. Perplesso per tutto il resto. Che abbaglio. Stavo per stropicciarmi gli occhi, prima di capire che era stato soltanto un sogno.
Dario Romano
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TSUNAMILONGO

Via del mare, Lecce. Tira una brutta aria, per i Salentini. Ma l’onda della contestazione non è nulla, in confronto al disastro targato Campilongo. Il Palermo, avversario di turno, non se la passa meglio altrettanto. Insomma, il gemellaggio vira verso un confronto che potrebbe scadere nell’anonimato. Della serie, non facciamoci del male, a Via del mare. Ed invece, per i Giallorossi, arriva uno tsunami. Sasà Campilongo è il pezzo pregiato di un mercato sontuoso: i Rosanero, malgrado tutto, puntano in alto. Noi ancora non lo sappiamo, ma sono le ultime cartucce. Il piatto piange da un bel pezzo: qualche colpo ed ecco che non è più vietato, sognare. Questione di tempo: l’anno dopo, il sogno di una notte di fine estate si protrarrà fino al nuovo anno. Poi, il ritorno all’inferno. Che il 23 Ottobre 1994 spalanca le sue porte, intanto, al malcapitato Lecce. Il Paradiso, invece, è tutto per l’attaccante del momento: per una settimana buona, la ribalta è tutta sua. Non poteva essere altrimenti, dopo una manita servita con tanto di settebello. Il racconto inizia da una parata per parte: si gioca a viso aperto e Sasà spreca. A volte, in trasferta, un’occasione del genere capita una volta sola: a volte. Mareggini e Gatta vengono impegnati a più riprese, ma il primo a capitolare è il padrone di casa: Caterino mette in mezzo, dove la punta svetta ed infila di testa. Siamo appena al quinto: anche l’incrocio, nel frattempo, aveva avvertito l’estremo salentino che le gatte da pelare non sarebbero mancate. Infatti, per Petrachi, il tempo di aggiustare la mira non mancherà. Il pari di Biondo è un fuoco di paglia: Gaetano Salvemini non si agiti. Anche dalla panca si avverte che la giornata è quella giusta. Due minuti e Sasà impatta da uno spiovente che, stavolta, arriva da destra. Per colpire sull’invito dello scatenato Gianluca, non deve neanche saltare. E Gatta, neanche ci prova. Dieci minuti ancora e se lo vede arrivare tutto solo, quel satanasso indemoniato. Infilato di brutto, il Lecce si scioglie, mentre il Palermo cavalca un’onda sempre più grande. Tsunamilongo chiude il primo tempo sgomitando pure troppo sul povero Ricci, suo marcatore deputato e immolato ad una causa ormai persa. Ma la parte lesa sta in porta: la dinamica dell’azione, che porta ancora al goal, la rivedremo ad altri e ben più alti livelli al Franchi, quando Amauri infilzerà la Viola. Ma torniamo in Puglia, una buona decina d’anni prima. Piovono reti, per i Lupi. Puniti e traditi da Petrachi: il leccese di nascita è immarcabile. Ne dribbla due ed entra in area: ha aggiustato la mira, ma non si sa mai. Sembra Maradona, si avvicina per sicurezza alla porta ed è cinquina. In generale, non nel particolare. Che riserva l’acuto anche ad Antonio Rizzolo, che ha tutto il tempo di controllare, aggiustare il pallone e scegliere la sua destinazione: è la sesta rete, prima dell’atto finale. Che spetta al protagonista assoluto di una giornata soleggiata, destinata ad entrare nella storia: la statistica, nel calcio, conta, soprattutto quando arriva il botto. Il rumore è forte quanto il malumore locale, quando Campilongo completa il filotto: a Lecce, quell’aria brutta si è trasformata in qualcosa di peggio. Il tiro dal limite di Sasà chiude un conto da pallottoliere: sette reti, possono bastare. Cinque, portano la firma del numero nove. Ne parleranno in ogni dove, compresi i telegiornali nazionali. Poi, torna tutto come prima: anzi, peggio. Per il Lecce, la via per l’inferno è già lastricata: finirà ultimo, fanalino di coda. Per il Palermo e per Campilongo, il ritorno all’anonimato in campionato. Dodicesimo posto, a più tre dalla zona retrocessione. E le polveri bagnate del napoletano: che dopo aver cambiato casacche a iosa, esplode a Caserta ed implode in Sicilia. La media in laguna non è la stessa che in Campania, ma dall’attaccante che arrivava dal Venezia ci si aspettava una dote più confortante. Nove marcature, il computo finale, di cui cinque tutte a Lecce. Troppo poco, nel totale, per sognare. Ma Sasà Campilongo si gode il momento, almeno fino alla prossima gara. Se non è record, poco ci manca: Eguaglia Carlo Dell’Omodarme, che a Como fa cinquina una trentina d’anni prima. Dalle rive del lago a Via del mare, dove circola ancora un nome. Uno tsunami come l’uragano: da quelle parti, ha lasciato proprio il segno, Sasà Campilongo.
Dario Romano
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IL PALERMO DEI PICCIOTTI

Back row L-R: Berti, Ferrara, Di Somma, Di Già, Tedesco, Biffi.
Front row L-R: Vasari, Pisciotta, Caterino, Galeoto, Iachini.
SERIE B
7st
Berti, Biffi, Iachini, Scarafoni.
Un asse verticale recitato come una filastrocca, condita da una banda di picciotti. Palermitani DOC, compreso l’allenatore. Il tutto scaturito dalle classiche nozze con i fichi apparentemente secchi, ma dentro con tanto succo. Frutti della necessità e del caso, poiché non si è seminato nulla. La SERIE A manca da un quarto di secolo, ma sembra l’annata buona. Non è un obiettivo, non può esserlo. Non era un calcio per poveri. Gli anticipi ed i posticipi sono come un’alba, preludio del tramonto. Nel mezzo, tanta roba. Con Ignazio Arcoleo, infatti, abbiamo scoperto cos’è la zona. Era la moda del momento: bisogna correre, attaccare e difendere tutti insieme. Il Mister, con il Trapani, ha fatto le prove. Lo vediamo spesso ospite in TV, come opinionista. Vuole il Palermo e aspetta, con impazienza, che il Palermo lo voglia altrettanto. Un matrimonio che s’ha da fare e si farà. Siamo tutti invitati e non manchiamo all’appuntamento: entra pure chi non ha il biglietto. Sempre la stessa camicia, che porta bene, ma soprattutto una lepre, anziché un coniglio, nel cilindro. Si chiama Tanino Vasari. E lo spettacolo può cominciare. Le vittorie contro Parma e Vicenza e la sconfitta contro la Fiorentina, presentano uno scenario da CHAMPIONS LEAGUE, altro che COPPA ITALIA. Francesco Guidolin, a TGS, ricorda il boato assordante della Favorita: la deflagrazione della bomba targata Ciccio Galeoto. Quando Zamparini chiama, la memoria accompagna la risposta. I Rosanero volano: brividi e vertigini, dal 3-2 alla Fidelis Andria, al 2-1 contro la Salernitana. La prima, in casa contro il Cesena, ci ha fatto capire che sarà un romanzo: il pareggio allo scadere con il portiere Gianluca Berti all’attacco, le serpentine del Vasari e la testolina di Giancarlo Ferrara, non ci hanno soltanto fatto piangere di gioia. Io, quel giorno, ci ho fatto l’amore, con la mia squadra del cuore. Ma è un tripudio collettivo: forse, un giorno, avremo uno stadio tutto nuovo, al coperto. Ma non credo che la gran massa biancorosanera, anche oggi, pur di vedere un CR7, si accolli carrettate d’acqua prima, durante e dopo la partita. Palermo-Pistoiese è un atto di fede. Ultima del girone d’andata, notturna ad Ancona (una bestiaccia nerissima, negli anni ’90 faceva rima con sconfitta ancora) ed è record di vendite per i decoder. La prima di quattro ko e quattro pareggi. Da chi non salta è catanese a tutti giù per terra. Con Ninetto Barraco, si riprende la retta via: un leone che sa come ruggire, ma ormai la Savana ha poche prede. Roviniamo la festa al Verona: botte da orbi, per finire proprio alla palermitana. A schifiu. Da loro è solo rimandata, ma da noi la festa è proprio finita. Il Palermo dei picciotti ha rappresentato il punto più alto e ha sfiorato il punto più basso, secondo solo alla radiazione, per la mia generazione. Un bel giocattolo, che doveva rompersi, per forza. Nel 2004 abbiamo visto scene di ordinaria follia: trent’anni ai margini ed uno squadrone che si apprestava a far tremare l’Italia pallonara. Ma nel 1996 ho visto e sentito cose che voi ‘tifosi’ non potreste proprio immaginarvi. Fermo con la moto al semaforo di via Notarbartolo, è rosso. Accanto a me, due ragazze in scooter. Cominciano ad intonare: ‘Ignazio Arcoleooo…’. Non scatta il verde. Parte invece un coro da stadio. Dalla gente in auto, da chi attraversa la strada. Un semaforo tutto Rosanero.
Dario Romano
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IL VASARI

Il nostro Topolino, ma soprattutto Speedy Vasari. Palermitano DOC, alfiere del Palermo dei picciotti guidati da Ignazio Arcoleo. Due le parentesi in Rosanero, la seconda terminata con la storica promozione: per mantenere una parola data. Dal 1995 al 1997, 69 presenze e 16 reti. Nella stagione trionfale della promozione in massima serie, venticinque apparizioni e la certificazione di un goal. Già dalle prestazioni con il Trapani e l’Acireale, aveva impressionato per la velocità e la capacità di saltare l’uomo sulla fascia. Mentre con Arcoleo diviene anche una seconda punta incontenibile nell’affiancare Scarafoni: ed è spettacolo. In sequenza, dalla coppa al campionato, alla Favorita cadono Parma, Fidelis Andria e Salernitana: tre partite che i tifosi non dimenticheranno mai. La corazzata di Nevio Scala annichilita e lo stadio una bolgia incredula. Nel mezzo, i match contro Cesena e Pistoiese. Nel primo, acciuffato per un soffio, la storica rete di Giancarlo Ferrara allo scadere dopo i dribbling ubriacanti di Tanino sulla destra, conditi dall’avanscoperta arrembante del portierone Gianluca Berti. Nel secondo, la battaglia nel fango d’altri tempi, con il leone Beppe Iachini a suonare la carica alle altre fiere. L’anno seguente, l’ennesimo scempio: dalla possibile promozione alla retrocessione. E certo, Bonaiuti, Favi e Saurini che rilevano i gran protagonisti della stagione precedente: Berti, Iachini e Scarafoni. L’asse verticale rivoltato in orizzontale: roba da barella. Merita la SERIE A, Tanino. Ci arriva, a testa alta, facendo ammattire le difese avversarie laddove il calcio conta per davvero. Vestirà le maglie di Cagliari, Sampdoria e Lecce. Sempre ai suoi livelli, sempre con il suo stile: pennellate rinascimentali del Vasari. Grazie, Tanino, per le emozioni che mi hai regalato e per l’avermi fatto sentire sempre più orgoglioso dei colori che amo. Ci hai messo anche una dose di quel qualcosa in più che lascia il segno: l’umiltà. E non ti vergognare per il mondo dopo. Nessuno, è senza peccato.
Dario Romano
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IL MIO NUMERO 1

Vedere un portiere volteggiare tra i pali e dispensare qualche ‘miracolo’, non significa necessariamente che ci troviamo di fronte ad un campione o potenziale tale. Sono convinto che, dalla terza serie in su, chiunque, tra gli estremi difensori, avrà delle qualità: ovvio, altrimenti non ci arrivi al professionismo. Sì, perché i fattori che fanno emergere un estremo difensore dalla massa sono molteplici: concentrazione, senso della posizione, abilità nelle uscite e con i piedi, esplosività, sicurezza da infondere a tutto il reparto (ne è la guida), esperienza e continuità. Quest’ultima, la ritengo fondamentale: non puoi prenderle tutte e la partita dopo cacciare le farfalle. Dulcis in fundo, i rigori. Decisivi, poiché fanno la differenza: per il passaggio di un turno o per iscriversi all’Albo. Il compito è delicato, in toto. Provate ad immaginarvi in quei panni, tutto solo per lunghi tratti o attorniato da tutte le parti. Un monumento del ruolo come Zoff, ci spiega che, per mantenersi concentrato nei novanta minuti e passa, faceva la telecronaca mentale del match. Immaginatelo, il taciturno Dino: ‘Ecco Cabrini che avanza sulla sinistra, lo scambio con Tardelli, che evita un avversario e serve Rossi…’. Difficile pensarlo, ma è vero: lo racconta nella sua autobiografia. Un portierone, uno dei più grandi di sempre, ma col limite dei tiri dalla distanza. Non ha iniziato la carriera con una grande e all’inizio prendeva carrettate di reti. Non ne usciva bene, ci stava male. Walter Zenga, l’uomo ragno: un’autentica molla, improvvisamente arrugginita al momento fatidico e fatale della lotteria dagli undici metri. Angelo Peruzzi, il tarchiato: ma esplosività da vendere. Mi dava sempre l’impressione che si arrendeva soltanto quando non c’era più nulla da fare: non è poco. A conti fatti, il più vicino alla perfezione è Gigi Buffon. Non dico è stato, poiché ancora attivo. Ha avuto la fortuna di iniziare sin dall’esordio con, a supporto, un pacchetto difensivo di prim’ordine. Ma, altrettanto, ha mostrato che delle porte ne possedeva tutte lui le chiavi: erano la sua casa, fin da giovane. Ha raggiunto l’apice proprio quando il fisico iniziava a presentargli il conto del tempo, inesorabile come la sua ascesa. La premessa non è divagazione: arrivo al Palermo, dopo l’omaggio a dei mostri sacri, esclusi gli stranieri: dal pioniere Ricardo Zamora, detto ‘El Divino’, al ‘Ragno Nero’, il più grande di tutti i tempi (a detta di molti), ovvero Lev Jašin, fino a Gordon Banks, che su Pelé si è esibito da par suo nella ‘Parata del secolo’. Da par mio, il luccichio è riservato a Peter Schmeichel: l’essenza, la presenza. Si tratta pur sempre di un elenco infinito, caratterizzato da scelte dettate dai punti di vista. Passando ai Rosanero, la storia ha visto spesso abbassare la saracinesca anche all’ombra del Pellegrino. Una tradizione di prim’ordine, comprese le meteore. Parto dalla più luminosa: Carlo Mattrel, come rendimento di una singola stagione, rimane inarrivabile. Le cronache del ’61-’62 testimoniano una serie di interventi spettacolari, conditi da ben otto rigori parati su dieci. In realtà, sarebbero nove, ma uno fu ribattuto in rete: un mostro. Sorvolo su Alberto ‘Jimmy e Nonno volante’ Fontana e su Salvatore Sirigu. Entrambi sopra la media, ma senza rubare più di tanto la scena e soprattutto il mio cuore. Catturato di più da un Vicè Sicignano: batte forte, ancora e per sempre, anche a costo di bestemmie. Stefano Sorrentino lo conosciamo bene: un leader dentro e fuori dal campo. Dove ha salvato spesso il risultato con interventi sorprendenti. Avrebbe meritato una carriera di ben altro spessore ed un Palermo più forte. Chiudo il sipario con Gianluca Berti: il mio numero uno ideale. Sia nella prima versione capelluta e più guascona, che nella seconda, quella matura della promozione. Il concentrato di tutte le doti che deve avere un vero portiere. Poca accademia, tanta sostanza. Emanava sicurezza: c’è lui, possiamo stare tranquilli. Con quella dose di follia che ci fece impazzire tutti, nel finale più bello di una partita tra le più belle. C’era pure Robertone Biffi, quel giorno, il capitano qui immortalato al suo fianco. Il portiere all’attacco, non l’avevo mai visto: per l’occasione, Gianluca è capellone, ma gli schemi li rompe alla grande palla al piede. La perla arriva per un Palermo-Cesena riacciuffato da Giancarlo Ferrara, dopo la pennellata del Vasari. Il ‘Palermo dei picciotti’ ha stimolato il mio orgoglio più di ogni altro: quel giorno, ho pianto di gioia e non ero il solo. Il resto che verrà dopo: fantascienza trasformata in favola, ma senza lacrime versate a paragone. A mancare, anche, il lieto fine. Che ruolo, quello del portiere. Freddo nella sua solitudine, caldo nell’immaginario collettivo. Dispensatori di papere e miracoli: se ne fanno una serie, trovano la loro collocazione. Al di qua o al di là della sottile linea rossa, che sta tra il campione ed il bidone. Eppure, anche il meno dotato, almeno per una volta, vi avrà colpito. Perché, ricordiamolo sempre: quelli in porta, bravi o scarsi, sempre speciali sono.
Dario Romano
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IL NUOVO GULLIT

Dopo averci fatto sognare con il Palermo dei picciotti, ecco arrivare, per la stagione 1996–1997, il primo straniero Rosanero dalla riapertura delle frontiere (della pedata). Prendilo dall’Olanda, possibilmente di colore e munito di trecce, ed ecco infiocchettato il nuovo Gullit. Arriva Ronald Hoop e…oplà, la frittata è fatta. Frittata già a buon punto, viste le scelte di Arcoleo & Co. di sostituire l’asse verticale della squadra (escluso il difensore centrale) Berti-Iachini-Scarafoni con Bonaiuti-Favi-Saurini. Quest’ultimo, non disputò una pessima annata (sedici le sue reti), ma del lavoro sporco del ‘falso nueve’ Scarafoni e del contributo delle altre due colonne portanti, in termini d’esperienza, non si poteva fare a meno: scelleratezza. Ma torniamo al nostro virgulto: sette presenze, una sola rete. Eppure, addetti ai lavori mi giurarono che in allenamento il van Basten nero (soprannome ufficiale, non scherzo), non era poi così male. Ma non somigliava a Gullit? Oggi non ha più le trecce, spero per sua scelta e non per altri motivi: potete vederlo sul suo profilo Facebook. Ah, dimenticavo, arrivò pure il marocchino: sua maestà Abdelaziz Dnibi, nell’estate ’96. ‘Non in grado di sopportare i carichi di lavoro’ per Ignazio Arcoleo, a causa del Ramadan (era musulmano praticante). Due sole presenze, per un totale di 53 minuti. Un digiuno interrotto negli ultimi quindici giorni, per avere una chance: ma il digiuno del campo, non ebbe fine. Dalla disfatta contro il Lecce, una retrocessione inevitabile. A scongiurare un fallimento dietro l’angolo, la cavalleria cala da Roma. Retrocessi e salvi, in tutti i Sensi.
Dario Romano
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BARRILETE CÓSMICO

La Favorita, 10/11/1996. Palermo e Lecce si affrontano alla decima giornata del campionato cadetto. I Rosanero sono ancora picciotti, ma senza balia: Berti, Iachini e Scarafoni ‘sò bell a mamma soja’. In panca, Arcoleo e Ventura. Dopo mezz’ora, per gli ospiti, una sventura. Dominio assoluto, certificato dalle reti di Saurini al 21′ e Favi al 26′. Poi, in un minuto, il segnale che il vento è cambiato e la partita svolta. Il colpo del ko, al 27′, è nel piede del centravanti: ma fallisce dagli undici metri, risparmiando una mazzata definitiva ai Giallorossi. L’espulsione di Caterino al 48′ accende un’altra spia, ma l’allarme è scongiurato. Passano i minuti, ne mancano una ventina scarsa. Ed ecco lo tsunami salentino, targato Francioso: doppietta col supporto di Casale ed è 2-3. Non si pensa ad un Milan-Liverpool: per Istanbul, è ancora presto. Ignazio è uno strazio: si guarda intorno, sconsolato. Lo sguardo cade in panca, dove roba manca. Abdelaziz Dnibi scalpita, vuole una prova. Peggio di così non poteva andare: al Diavolo la zona, il pressing ed il contropiede. Mettiamoci pure il fuorigioco. O la va, o la spacca: ‘Aziz, come minchia ti chiami, metti la maglietta.’ Ed il virgulto, entra. Appesantito sembra, si vede la pancetta: altro che Ramadan. Il pubblico mugugna: risultato ribaltato, ma il jolly che ti sei giocato, Gnazio, è sbagliato. Miscredenti senza fede. Il marocchino tocca il suo primo pallone e sembra già un miracolo: circondato da avversari, la poggia proprio a Di Già e scatta di là, verso la porta, scusandosi a mio nome del gioco di parole. Servidei anticipa e crea dal nulla un campanile verso l’estremo difensore: Aziz non crede a tanta manna e ci si fionda. Non ci può arrivare con la testa, ma può farlo con la mano. Beffarda, la sfera scavalca il portiere e si deposita dolcemente in rete. Irregolare: lo hanno visto tutti, tranne l’arbitro. ‘È stata la mano di Allah’ dirà, in conferenza stampa, un incredulo (non sarà il solo) Dnibi. Ma non è finita, la partita: neanche lo spartito. Siamo nel recupero: abbiamo recuperato, ma chi si ferma è perduto. Come Speedy Vasari, alias topolino, che non ne ha più. Nei pressi della linea laterale del centrocampo, la passa proprio all’invasato. È un assist: un passaggio vincente, inconsapevolmente. E parte lo show: Aziz sembra davvero indemoniato. Una veronica e si libera di Mazzeo, finta su Cucciari, doppio passo riservato a Macellari, supera Mancuso e scarta pure Vanigli: il tutto, avviene a velocità supersonica. Resta il solo Lorieri: gooooooooooooolll che neanche Auteri. Guido Monastra piange ed urla, dalla tribuna stampa: ‘BARRILETE CÓSMICOO!!!’ Ventura Gian Piero, sincero: ‘della mia carriera, l’episodio più sconveniente.’ E ancora non hai visto niente. Non è ARGENTINA-INGHILTERRA e neanche ITALIA-GERMANIA quattro a tre, le partite iridate della mano de Dios, della rete e del match del secolo. Non lo sono pure gli altri goals, ma tra i nostri flop del secolo, lui ci sta divinamente: all’anagrafe, Abdelaziz Dnibi. See, vabbè.
Dario Romano
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BIFFI GOL

Dal 1988 al 1999: undici anni in Rosanero. Record di presenze nei campionati insuperabile: 319. Arriviamo a 373, se contiamo le altre competizioni: inattaccabile. Diciotto le reti, quasi tutte su calcio di punizione. Era il suo marchio di fabbrica: una sorta di diritto divino, acquisito grazie alla celebre cannonata, che ci valse una salvezza, nella gara contro il Monza, datata 1994. Peccato che la maggior parte delle esecuzioni su calcio piazzato, spesso, finiva in curva. Non me ne voglia: ma alcune, se le poteva risparmiare. Milanese DOC e cresciuto calcisticamente tra i Rossoneri, si segnala nel Foggia. Poi Modena, Prato ed il prestito al Mantova. Ed è dai Lanieri toscani che arriva al Palermo di Rumignani. Aveva i capelli cortissimi e non credo avrebbe mai immaginato di divenire la nostra bandiera per eccellenza. Un baluardo difensivo di lotta e di governo, pur dotato di una discreta tecnica. Spesso, lo si vedeva uscire dalla retroguardia palla al piede, per impostare l’azione: un libero d’altri tempi e moderno. Riconoscibile in campo per la chioma divenuta riccioluta e per la stazza: era facile vederlo fare a sportellate con gli attaccanti avversari. Non manca neanche la prova dell’altrettanta irruenza caratteriale. Gli aneddoti si sprecano: in un calcio non ancora svelato in ogni dettaglio, sfuggono le parole di troppo, i colpi proibiti, le minacce poi sfociate in fatti. Ma gli atteggiamenti più eclatanti, risaltano: da una testata ben assestata alla bella mostra dei gioielli di famiglia, situati laddove non batte il sole. Che illumina tutto il resto: prima con Fabrizio Bucciarelli (uno dei difensori più eleganti e concreti visti in maglia rosa) e poi con Ciro Ferrara, ha composto una coppia di centrali affidabile, che con Gianluca Berti tra i pali ha raggiunto la massima espressione. Il tutto anche orecchiabile, grazie ad un coro che ci ha accompagnato per anni, anni di SERIE C e SERIE B, con le ciliegine delle vittorie altisonanti in COPPA ITALIA. Poca roba, per chi credeva di non poter mai rivedere il Palermo in SERIE A: tanta manna, per chi andava a vedere le partite in una Favorita diventata una bolgia. E se quel pallone da lui calciato finiva alto, poco importava: la tribù rosa aveva comunque celebrato il suo rito. Grazie, capitano: ‘fino alla fine…’, hai detto, dopo quella celebre vittoria contro la Pistoiese nel fango e nel pantano. Erano le tue battaglie, il tuo pane: noi la tua arena, tu e Beppe Iachini i nostri gladiatori, i nostri condottieri. Avete reso dei picciotti un branco di lupi affamati. Le braccia in campo di un nostrano timoniere, ‘Gnazio, capitano di lungo corso. Ed eccoti fiero, in questa foto: fiero di essere stato Rosanero. Tu che eri, sei e sarai, per sempre, Robertone, il nostro leone d’eccezione. Tutti insieme, dai, che parte ‘Biffi gol’.
Dario Romano
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RAZZO MISSILE

Una montagna di muscoli, una cresta di riccioli, una castagna come una bomba. Piedi non proprio raffinati: eppure, a volte, ecco il colpo ad effetto. Un lancio millimetrato ma, in seguito, un altro da piede quadrato: sarà il caso, sarà il fato. Su Roberto Biffi ho già detto, ma qualche parola in più, non guasta. Del resto, ci penso spesso, a quegli anni ad un passo dal calcio che conta. Strano: ci siamo andati più vicini quando il Palermo era soltanto quello dei picciotti. A difenderci, nella pugna sportiva contro i club del nord, un milanese purosangue. Che svettava in campo, con quel fisico da marcantonio, quell’incedere un po’ macchinoso e tuttavia, a tratti, elegante. Con qualche atteggiamento sopra le righe annesso, poiché il virgulto è anche un ossesso. Temperamento focoso, da capitano coraggioso. Uno che la gamba non la tirava di certo indietro, con tanto di gomitate e capocciate. Mazzate e sportellate in campo e occhio alla parola di troppo: si infiamma anche la sala stampa. Ma non fermiamoci all’apparenza. Piuttosto, a ciò che conta. Le presenze, inattaccabili. La presenza, manifesta. Si sente eccome la sua assenza: quella del giocatore simbolo, la bandiera della squadra. Il ‘doble ancho’, l’armadio a due ante che è sempre meglio stia dalla tua parte. E se qualche volta i circuiti di mille valvole andavano in tilt, poco importava. Prima o poi, partiva il razzo missile. Se nello specchio: inevitabile, ineluttabile. Era ‘Biffi gol’.
Dario Romano
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EL CABALLO

La progressione palla al piede. Sembra proprio un puledro, partito al piccolo trotto fino al botto finale. Una serie infinita di finte, impercettibili ma imprescindibili. Mi ricordano quelle del Divin Codino, quando ad Italia ’90 si beve i boemi a piccoli sorsi, fino a farci ubriacare. Roby esercita dei movimenti infinitesimali, che non lasciano scampo agli inseguitori. Dove andrà ed è già sgusciato via. Christian La Grottería fa lo stesso, ma nel suo piccolo. Poiché trattasi di un livello ben diverso, ovvio e ci mancherebbe altro: ma nel rivederlo, quell’andare continuo che parte dal torace e finisce negli arti inferiori, tipico dei campioni, mi si stropicciano gli occhi. Perché è la prima volta, nella mia vita. Il mio Palermo, finalmente, ha un diamante nella rosa. El Gaucho proviene dalla Pampa, portandosi appresso più di un soprannome, come la tradizione argentina vuole. Ed il secondo apelido, lo si apprezza di più già ad Ancona, la sua prima destinazione oltreoceanica. El Caballo è di razza purosangue: un fuoriclasse. Per la categoria, attenzione. A volte crescono, a volte si fermano: la dimensione, resta. Mentre l’universo continua ad espandersi ed il tempo scorre: anche per un cavallo al galoppo. Purtroppo, con una caviglia non proprio al meglio. Questo il limite del mio nuovo idolo e di migliaia di ragazzine. Christian è bello a vedersi: criniera al vento, fa del campo la sua prateria e ruba l’occhio, fino al traguardo agognato. Quel pallone dentro o fuori a fil di palo, per un soffio. Lui ha dato tutto mentre, per un attimo, mi sento più all’ippodromo di fianco che allo stadio. Il preludio ad un viaggio più avvincente: questo, è appena cominciato. Il nuovo secolo, per il Palermo, è come un Big Bang. Si parte proprio da qui, dagli investimenti di Franco Sensi. Salvati per il classico rotto della cuffia e destinati a trionfi neanche lontanamente immaginati. Christian è la ciliegina di una torta ancora tutta da impreziosire. Scalpita presto, il giovanotto. Che rinuncia all’università per scegliere il calcio. Gimnasia e poi Estudiantes, il club delle streghe: La Bruja e La Brujita Verón. Le origini calabresi aiutano il virgulto a calarsi nella parte: ai Los Pincharratas, oltre al talento, serve sangue caldo. La garra, qui, è di casa. La realtà, però, è un’altra cosa. Christian non è ancora un professionista e per sbarcare il lunario tira, di fatto, la carretta. In serie cadetta, tra le due San Martín, di Mendoza e San Juan. Fioccano reti e l’occasione di una vita: un viaggio di sola andata per l’Italia. La Grottería firma per l’Ancona. Due stagioni in terza serie, caratterizzate entrambe da un epilogo vincente: una salvezza ed una promozione ai playout e playoff. A condire il tutto, le dodici marcature dello straniero. Che in Sicilia cancella in un colpo solo i ricordi dei vari Hoop e Dittgen: Sensi sborsa due miliardi da record e rinnova la tradizione Albiceleste in salsa Rosanero. Il Totem resta Ghito Vernazza, la bocca si spalanca con El Flaco, La Joya, El Mudo e tutti muti. Intanto, non sapendo, ci accontentiamo del Caballo. Che è tanta roba, si avverte nella serata di gala. Alla Favorita si asfalta il Catania e Christian impazza: troppo forte, quel Palermo, spentosi fino a sciogliersi in un finale al fulmicotone. Una promozione per cuori forti. Il pezzo forte, si manifesta ai livelli più consoni. C’è una Bomba tremenda, nel team di Bortolo Mutti. E c’è soprattutto lui: La Grottería. In stagione, il suo nome vuol dire capocannoniere di una squadra niente male. Undici marcature, arricchite dai giochi di prestigio di un reparto avanzato da urlo. Che nervi, quando lui non gioca oppure non è al meglio. Ho sempre avuto la sensazione che, tirato a lucido, avrebbe fatto ben altra carriera. Che invece si attesta su un calcio minore. Al culmine del suo splendore, il sogno ad occhi aperti svanisce: perché ci sono anche i fulmini a ciel sereno. Il Rosanero dell’argentino mette nel conto anche l’amaro. Un’auto che brucia, pettegolezzi sopra le righe, di quelle lasciate a libera o dubbia interpretazione. Io mi fermo a quanto visto: tra un goal, una giocata da slogare la mascella, una ciccata dopo l’ennesima cavalcata. Varrà lo stesso per i tifosi del Padova, della S.P.A.L. e del Bassano. Dove arriva il fatidico chiodo ed inizia l’avventura da dirigente e allenatore. Christian non lascia l’amato calcio, fino al galeotto amore che lo destina a Padova, a due passi da me. Il bar Kolar, di sua proprietà, val bene una caffè. Ed un semplice ‘grazie’, al Caballo che mi fece impazzire.
Dario Romano
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BANDIERA ROSA

Sono passati vent’anni. Le notizie che arrivano da Avellino sono per cuori forti. L’attaccante peloritano Vittorio Torino si fa parare un rigore al 90′ da San Santonetti ed al Partenio, dalla possibile vittoria del Messina si passa, in pochi secondi, alla vittoria dei campani in pieno tempo di recupero. Battuto l’Ascoli alla Favorita con la rete di Tiziano Maggiolini al sedicesimo minuto della prima frazione, il Palermo può gioire per una promozione in SERIE B che sembrava certa e che si era maledettamente complicata. Siamo passati dall’Inferno al Paradiso in un lampo. Il buco nero, che sembrava avesse preso il sopravvento, viene inesorabilmente scacciato da una luce accecante. La stessa scienza, brancola ancora nel buio: vallo a spiegare, il calcio. E così, il nostro capitano Massimiliano Cappioli si prende la nord e può partire la festa. In curva, sventola bandiera rosa.
Dario Romano
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