Il primo vero bomber Rosanero, nonché lungagnone, come Luca Toni comanda. E Lorenzo Lucca ce la sta mettendo pure tutta: ovviamente di testa, ma anche di castagna. Ma ecco il capostipite delle nostre torri, il pioniere: lo chiamavano ‘Il Vichingo’. Tradiscono i tratti ed anche il giganteggiare: nelle aree avversarie. Ma era semplicemente brianzolo: all’anagrafe, Carlo Radice. Ha indossato la nostra casacca, sia classica che strisciata, ma, soprattutto, l’ha messa che era un piacere. Dal 1929 al 1933, 84 presenze e 64 reti. Quattro stagioni (poi una presenza nel ’34-’35) condite da due promozioni, dapprima in cadetteria ed in seguito in SERIE A, la prima in assoluto per i nostri colori. È stato a lungo il cannoniere del Palermo in ogni categoria di tutti i tempi, fin quando Fabrizio Miccoli lo ha superato, 79 anni dopo. Chiuse la carriera nel ’36 al Gruppo Sportivo Acciaierie e Ferriere Lombarde Falck. Capocannoniere della SERIE B, pagò a caro prezzo una relazione extraconiugale, che sancì il suo abbandono della Conca d’oro. Vizi e virtù di un giovane dallo sguardo pulito e di un calciatore come non ce ne sono più. Tornò per un solo match: tanto per capire che non era più aria.
Dante Di Maso è stato per 55 anni al primo posto tra i goleador di tutti i tempi del Palermo in SERIE A, superato da Fabrizio Miccoli durante la stagione 2009-2010. Era sparito completamente dai nostri radar, come spesso accade nello sport: la memoria degli appassionati per caso, è troppo corta. La velocità, il suo punto di forza. Il vizietto per il goal, il suo marchio di fabbrica. Donne, calcio e Grande Torino, le sue passioni. Il destino è comunque in agguato, per un’ala che avrebbe potuto giocare al fianco di Valentino Mazzola. Il consiglio del padre dirotta Dante in Sicilia e lo allontana dallo schianto di Superga. Chissà, se anche la pipì di una farfalla può scatenare uno tsunami, un Di Maso in Granata avrebbe potuto riscrivere il romanzo della pedata. La poesia, in questo caso, sta tutta all’ombra del Pellegrino. Un assaggio in Rosanero nel 1947-1948 (sei presenze, una rete). Dopo l’esperienza di un anno all’Arsenale Messina, torna al Palermo e ne fa la storia. Tra il ’49 e il ’55 ben quarantuno reti (una valida per gli spareggi) in 158 gare: quaranta è tanta roba e record, prima dell’avvento del Romário del Salento. Tanto rosa, nella vita di questo attaccante: sensibile sotto porta e alla vista di una bella e dolce donna. La più importante della sua vita, sua figlia, sparisce in circostanze tragiche ed ecco bussare il nero. L’amaro prende corpo, come il Morbo di Alzheimer. Ci pensa il brutto anatroccolo con i piedi di velluto, a farlo tornare alla ribalta: a farne le spese, soltanto il primato, quello che in molti avevano dimenticato. La maglia: una delle più belle di sempre. I laccetti al collo la rendono unica: è l’effetto british style. Il temperamento, da gran portento. Il goal, uno scherzetto: che ghigno. Dante aspetta il fischio d’inizio: vuole segnare ancora e godersi la serata. Un lupo, che ancora non aveva perso il vizietto.
Questa fotografia dell’Anglo-Palermitan Athletic And Foot-Ball Club, datata 1900, l’anno della fondazione, è stata pubblicata recentemente sul Giornale di Sicilia. Restaurata, anche se ancora non del tutto, e colorata dal sottoscritto, ci svela delle novità interessanti, approfondite dal servizio di Giovanni Tarantino. Vi invito a leggerlo, poiché, oltre a quanto riportato nel mio articolo di seguito, le sorprese non mancano. Sorprese perché c’è ancora troppa confusione, sulle origini del sodalizio Rosanero. A poco a poco, si sta facendo chiarezza: per la nostra contentezza. Innanzitutto, il Palermo non è stato fondato dagli inglesi. Ignazio Majo Pagano non è il Kilpin del Milan. Palermitano, scopre il football a Portsmouth e lo importa in Sicilia. Torna a Palermo nell’Agosto 1900 e, dopo tre mesi, fonda il club. Ovviamente, anche la denominazione, che sa tanto d’Albione, può trarre in inganno, come la presenza nella squadra di veri e propri britannici. Ma andiamo per ordine. Lo statuto (autentico) riporta la data01/11/1900 riguardo la fondazione. Non 1898, come ancora oggi taluni credono. Inoltre, la famiglia Whitaker, spesso associata alla proprietà, ha solamente messo a disposizione della squadra il campo Notarbartolo per le prime dispute tra marinai, che non erano giocatori del neonato club. Infatti, non figurano loro membri negli organigrammi societari. Riguardo i colori del neonato team, sappiamo del rossoblu. Ma non erano le maglie del Portsmouth FC. Quando Pagano vede i Pompeys giocare, questi indossano una maglia rosa salmonato, ispirata ai colori dei tram cittadini. Nel 1909 passano ad un anonimo bianco, senza spiegazioni. Due anni prima, il Palermo diviene Rosanero. Il blu sulla maglia dei portuali inglesi compare nel 1912. Il rosso, soltanto nei calzettoni e addirittura nel 1947. Per concludere, rimane pure un alone misterioso. Perché non dobbiamo dimenticare la famosa lettera di Airoldi, che suggerisce il cambio cromatico: rosa per la vittoriaenero per la sconfitta. Il dolce e l’amaro per i risultati alterni. Rosa, come le maglie del Portsmouth delle origini. In sintesi, subentra anche il giallo. Inoltre, approfondendo, si scopre che gli inglesi navigano in cattive acque, rischiando l’iscrizione al campionato. Pagano torna oltremanica: è una toccata e fuga. Per il club inglese una boccata d’ossigeno: si risana e abbandona i colori delle origini (poi affonderà nuovamente). La nebbia torna fitta. Poi si dirada e spuntano prima un pallone, poi delle ali. Ed ecco il Palermo con cui oggi ci identifichiamo: maglia rosa, calzoncini neri, calzettoni neri con bordi rosa in infinite varianti. Bianco il terzo colore. L’Aquila, il suo simbolo. La nostra storia, le nostre origini: non si possono inventare. Il resto, lo possiamo solo immaginare. Perché il calcio è poesia. Ma è anche una favola.
Muñoz, Moreno, Pedernera, Labruna y Loustau. Una filastrocca che ogni appassionato del futebol conosce a memoria. È la celebre ‘Máquina’, partorita dal giornalista uruguaiano Borocotó sulle pagine de ‘El Grafico’. Un quintetto offensivo da leggenda: in Europa solo la storia del Real può vantare tanta manna. Li chiamavano anche ‘Los Caballeros de la Angustia’, quell’ansia che ti attanagliava fino all’ultimo, perché potevano farti male fino al fischio finale. Quando ‘El Maestro’ Adolfo Pedernera lascia la squadra per l’Atlanta e poi la Plata e la Pampa per la Colombia, il meccanismo s’inceppa. Alla macchina serve un nuovo carburatore e torna alla perfezione con un vero campione. Un fenomeno: Alfredo Di Stéfano. La Saeta Rubia, un cavallo purosangue per un motore che torna a ruggire e a volare. In tutti i sensi, perché l’allievo raggiunge il maestro nella casetta a Bogotà. E qui entra in gioco un altro Caballero di razza: Santiago Vernazza. Ghito attira l’attenzione del River per la sua media realizzativa al Club Atlético Platense: segna un goal ogni due match. Con i Los Millonarios tanta grazia si può ulteriormente aggraziare e va in porto l’affare. C’è da lavorare, perché la tecnica è da affinare. Ma questo nuovo Caballero, ha il suo cavallo di battaglia nel controllo della palla e nella potenza. Stop e tiro al volo ed è sentenza. Il ricamo è nei piedi di Walter Gómez: l’uruguaiano predilige la trequarti, ma si alterna con l’argentino al centro dell’attacco. La media goal di entrambi rimane di tutto rispetto, ma non arriva certo ai livelli del quintetto leggendario. La Macchina si è di nuovo inceppata: questi due non sono figli della casa. Dove ti insegnano un’altra filastrocca: parte dal cuoio e finisce con la mucca, perché sulle sponde della Plata si gioca palla a terra, o a filo d’erba che dir si voglia. In più, le sirene del Mediterraneo mandano echi assordanti ed inducono a tentazione. Parte Walter per Milano, ma i milioni ai Rossoneri arrivano dal Palermo, che piazza due colpi forte: uno al cerchio, l’altro alla botte. Ed è un cerchio tondo per davvero: visibilmente sovrappeso, gioca al rallentatore ed anche sporco. L’età non è proprio quella del passaporto, come la sua classe che non è acqua, ma un’altra cosa è Vernazza: la botte, qui, è di ferro. Quello rovente. ‘El Botija de oro’ non era scarso, ma in Rosanero ha fatto il bidone. In Sudamerica, un’istituzione: peccato. Santiaghito, invece, ci ha mostrato di che pasta è fatto un campione. Ecco l’ansia, ecco l’angoscia: alla Favorita le penne, ci si lascia. El Caballero si prende del capitano la fascia e ci spalanca la mascella: non solo quella, anche le porte. E inizia una tradizione: da Martegani a Pastore, da Vázquez y Dybala fino al Matusa, quel Santana che ancora balla. Qui, del tango, non ci si stanca: grazie ai nostri Caballeros della Pampa.
Sono passati vent’anni. Le notizie che arrivano da Avellino sono per cuori forti. L’attaccante peloritano Vittorio Torino si fa parare un rigore al 90′ da San Santonetti ed al Partenio, dalla possibile vittoria del Messina si passa, in pochi secondi, alla vittoria dei campani in pieno tempo di recupero. Battuto l’Ascoli alla Favorita con la rete di Tiziano Maggiolini al sedicesimo minuto della prima frazione, il Palermo può gioire per una promozione in SERIE B che sembrava certa e che si era maledettamente complicata. Siamo passati dall’Inferno al Paradiso in un lampo. Il buco nero, che sembrava avesse preso il sopravvento, viene inesorabilmente scacciato da una luce accecante. La stessa scienza, brancola ancora nel buio: vallo a spiegare, il calcio. E così, il nostro capitano Massimiliano Cappioli si prende la nord e può partire la festa. In curva, sventola bandiera rosa.
È la stagione 1984-1985, che precede l’annata della radiazione. Il fornitore tecnico è nr, lo sponsor ‘cucine juculano’. Valerio Majo lo vediamo spesso nelle formazioni schierate degli anni ’70 e ’80. Ha militato in Rosanero in due riprese: dal 1974 al 1978 (128 presenze e 10 reti) e dal 1983 fino al nefasto epilogo, con 84 apparizioni e due realizzazioni. Da sottolineare, nel mezzo, le stagioni in SERIE A con Napoli e Catanzaro. Quando torna in Sicilia, il giocatore vede meno la porta e meglio il campo. Ha chiuso la carriera nel Palermo, tornando nel 2002 come vice allenatore. La squalifica di tre anni a seguito del coinvolgimento nel calcioscommesse non oscura il suo ricordo: il suo ruolo di raccordo tra difesa e centrocampo, il rilancio dell’azione, la visione di gioco e la chioma inconfondibile, lo rendevano una spia ben accesa nell’arena pedatoria. Quando scatta l’allarme, è come un Big Bang e Big Ben dice stop: la squalifica di tre anni è dura da digerire e troppo lunga per ripartire. Il biondo rubacuori, nella foto indossa una maglia gialla, per la gioia dei collezionisti. Da notare i bordi rosanero, presenti nel collo a ‘V’ e visibili pure sulle maniche. Sullo sfondo, scorgiamo Conticelli, Maiellaro e Bigliardi al palleggio. Si distingue anche il secondo anello della Favorita, che verrà ricostruito per Italia ’90. Manca ancora meno per l’onta: quella della radiazione. La mia prima cicatrice da tifoso. ‘Che faccio, senza il Palermo!?’. Avevo tredici anni. Speravo che i miei eroi, Majo compreso, potessero fare qualcosa. Mi hanno tolto anche loro.
Prelevato dalla Salernitana, Alberto Piccinini disputa una sola annata in Rosanero (stagione 1948-1949, con all’attivo 36 presenze e zero realizzazioni). Si tratta di uno dei primi interpreti del ruolo di ‘libero’. Gipo Viani lo schiera nel nuovo sistema con il numero nove: non è follia, ma pura genialità. Ne scaturirà il ‘Vianema’, che nasce proprio a Salerno e si evolverà al Palermo. Non si vede in campo proprio un falso nueve: in pratica, al centravanti avversario è piuttosto deputata la caccia. Il giocatore, tuttavia, in Sicilia tornerà al suo naturale ruolo di centrocampista, ottenendo un undicesimo posto finale, al fianco di giocatori come ‘Cesto’ Vycpálek, Tanino Conti, Aurelio Pavesi, Carmelo Di Bella. A guidarli dalla panchina, Giovanni Varglien, una vera e propria colonna bianconera. Colori juventini che indosserà lo stesso Piccinini, una volta chiusa la sua esperienza all’ombra del Pellegrino. Una toccata e fuga al Milan, prima del ritorno nel 1954 (tredici le presenze, con una sola rete a referto). Brevissima invece la sua avventura in panchina nell’anno successivo, ma anche la sua esistenza: purtroppo, un male incurabile lo porta via ad appena quarantanove anni. Alberto era il padre del telecronista di Mediaset Sandro, celebre per la ‘sciabolata’, il suo indiscutibile cavallo di battaglia. Nella foto, indossa la maglia più bella: nera, con colletto e maniche rosa, i polsini neri. Qui, a farla da padrone, è l’eleganza.
È il 06/01/1949, giorno dell’Epifania. Alla Favorita arriva il Grande Torino: la squadra più forte che ne ha calcato il campo. Questa foto si trova da allora nel medesimo impianto, oggi intitolato al Presidentissimo Renzo Barbera, nel corridoio d’ingresso della tribuna vip, ovviamente non a colori ma in bianco e nero. Il Palermo, schierato a centrocampo, affronterà i temibili Granata, visibili sullo sfondo, con il completino da trasferta. L’omaggio è dovuto e necessario: l’equivoco cromatico è dietro l’angolo, con pioggia e fango che contribuiranno a rendere epico un match che, già dalla vigilia, è connotato da un’aura leggendaria. L’attesa qui non è essa stessa il piacere: si andrà ben oltre. Un tappeto di ombrelli fa da contorno ad un’arena che vede un Toro difficile da matare: quello di Valentino Mazzola e relativa banda, vede sempre rosso. Si gioca su un vero pantano, ma gli ospiti sembrano danzare sul velluto: al 41’ Gabetto li porta in vantaggio ed al nono minuto della ripresa Bongiorni raddoppia. Ma non è giunta ancora, l’ora della buonanotte, nonostante un tema già scontato sembrasse seguire il suo normale svolgimento. Capitan Valentino, quando occorreva, sapeva bene come lanciare il suo segnale: si rimboccava le maniche e per il Toro partiva la carica. Ma quel giorno sono gli undici in maglia bianca e nera di tanto sporco, a scatenare l’Inferno. In sette minuti (27’ e 34’ della ripresa) arriva il pari confezionato dalla ditta Pavesi e Milani, ma la portata non basta. È una gara da emozioni forti: nel finale, De Santis sfiora il clamoroso sorpasso del tre a due. Ottanta o novant’anni, l’età di chi quella partita l’ha vista e potrebbe raccontarcela: li invidieremo per sempre. Quattro mesi, invece, la distanza temporale che separa quell’incontro dalla tragedia di Superga. Allora non si usava l’aereo per le trasferte di campionato: il Torino lo prenderà per quella maledetta e fatale amichevole di Lisbona, scaturita da una promessa, fatta dal grande capitano, al pari grado lusitano del BenficaFrancisco Ferreira, in difficoltà economiche e desideroso di raccogliere un cospicuo incasso. Il tutto sancito da una semplice stretta di mano: bastava eccome per quei tempi. Bastò per darsi appuntamento con un tragico destino.
Questa foto, dal sottoscritto colorata, è stata pubblicata sul Giornale di Sicilia l’anno scorso, grazie a Giovanni Tarantino. Domani ricorre il tragico evento che nel maggio 1949 ha spezzato le vite dei Tori Granata e i cuori di tutta Italia. Potrete leggere ulteriori approfondimenti, corredati dalle immagini, riguardo la leggenda di Valentino Mazzola e del Grande Torino, sulla pagina Football History e sul sito footballhistorysociety.com, nella sezione dedicata alla FIGC.
Due stagioni indimenticabili in Rosanero: 1950-1951 e 1952-1953, con un totale di 50 presenze e 20 realizzazioni, per questa autentica pellaccia turca. Şükrü Mustapha Gülesin è una leggenda del Palermo. Acquistato dalla Lazio, arriva inizialmente prestito ma disputando in biancoceleste la stagione di mezzo, la sua migliore, considerando il quarto posto finale dei capitolini e le sue sedici reti. Sono tantissime, per la SERIE A dell’epoca. Iniziò la carriera come portiere, ma ben presto si trasformò in attaccante. Era un giocatore di stazza imponente (191 centimetri per quasi cento chili), ma abbastanza debole e indolente nei contrasti. Comunque sufficientemente veloce, soprattutto abile rigorista e specialista nei calci piazzati. ‘Il Sorridente’ era uno che le dava e le prendeva, non solo in partita. Coinvolto in una rissa (nella foto sopra, fa invece da paciere), rischiò la pelle a suon di bastonate: fu ritrovato lungo disteso e con il volto insanguinato. Da Istanbul a Palermo, resta ovunque brava, la notte. Le botte, piuttosto, meglio in campo. Poiché possedeva davvero una gran castagna: in un Palermo-Padova del 12/11/1950, finita 3-1, il malcapitato portiere avversario Enzo Romano preferì scansarsi, anziché affrontare una sua conclusione dal dischetto. Avrà pensato: ‘mamma, lo turco!’, visibilmente spaventato. Ma il pericolo, con Şükrü, non arrivava solo dall’area: il suo talento nel battere i corner a rientrare gli valse ben 32 trasformazioni direttamente dalla bandierina, considerando tutta la carriera. Altro che Massimo Palanca. Tornerà in patria, dove chiuderà con il Galatasaray. Con i Leoni le soddisfazioni finali: conquista il titolo in Turchia e poi si diletta. La sua firma, dopo il campo, pure da giornalista sportivo lascerà il segno. Chi l’avrebbe mai detto.
Era il soprannome di Paolo Viganò, per la somiglianza con il campione del Mondo e d’Europa teutonico, uno degli alfieri del Kaiser Franz. Comincia con la Juventus, poi una sola presenza in SERIE A con la Roma, per scoprire la cadetteria con le maglie di Monza e Palermo. Come dimostra la foto, la stazza e la potenza muscolare non mancavano: sembrano le gambe di ‘Kalle’ Rummenigge. Le muoveva sulla fascia sinistra, dove vent’anni dopo vedremo un altrettanto biondo terzino, di nome Giovanni e di cognome Caterino. A più alti livelli, Federico Balzaretti. La palma della chioma rubia è tutta sua. Viganò disputa quattro campionati in maglia Rosa, per un totale di 107 presenze senza realizzazioni a referto. La mette, invece, proprio alla Favorita, ma da Rondinella: stoppa il volo di un esultante Vito Chimenti, tarpando le ali alle Aquile Rosanero. Il classico goal dell’ex in un Palermo-Brescia versione cadetta. Non potrà disputare la maledetta finale della COPPA ITALIA scippata dal Bologna, nel ’74, causa squalifica. Non si sarà crucciato più di tanto: esito non scontato, ma già scritto. Dopo Brescia e Novara, chiude da dove era arrivato: nei brianzoli monzesi, annata 1980-1981. Alla vigilia del Mundial. Lasciamo perdere Günter Theodor Netzer: la coppa, stavolta, non sarà crucca.